Stella nacque il 12 gennaio, no, forse l’11. Rischiò di morire sette, no forse otto volte se si conta la volta in cui affondò il bastimento. Visse sette o otto volte, oppure rinacque: la sua sopravvivenza è un mistero, ma un senso deve avercela tutta questa sua ostinazione a restare aggrappata alla vita, una ragione c’è nella forza incontenibile che la tiene dritta, inflessibile alle logiche crudeli di una società in cui la parola dell’uomo è verbo, verità incontrovertibile, legge immutabile. Da Ievoli, nella Sila catanzarese, ad Hartford, nel Connecticut, una guerra di prospettive che naviga sui bastimenti dell’emigrazione, sulla linea di confine tra due mondi, quello femminile e quello maschile, che sono distanti, contrapposti, in armi.
La Calabria e l’America, l’uomo e la donna, è il mondo che si racconta attraverso la storia di Stella, di sua madre, di sua nonna. A Ievoli le donne sposano che sono bambine, diventano madri prima della maggiore età, e diventano vedove prima di essere maggiorenni, che i mariti c’è sempre una guerra o un lavoro lontano che se li porta via: gli uomini appaiono e scompaiono, ma solo per riaffermare il proprio potere, e le donne lottano per loro stesse, per i figli, alleate fra loro in una sorellanza che è il motore della vita, il carburante del cambiamento. Stella protegge la madre, la sorella, la nonna, la zia, e loro sono pronte al momento giusto a salvarle la vita.
Juliet Grames arriva da New York perché la sua piccola parte di sangue calabrese ha preso il sopravvento, l’ha portata in Calabria per raccontare una storia durissima, ma anche magica, meravigliosa: ci spiega in un romanzo la storia del Novecento, di un Sud che nasce così perché schiacciato fra settentrione e meridione, dentro una nazione giovane e antichissima, straziata da due guerre, una dittatura, che ha troppi bisogni e troppe urgenze per poter progredire in modo armonioso, e le diseguaglianze producono diseguaglianze, figliano differenze, i retaggi culturali non riescono a trovare uno sbocco naturale di cambiamento, si sommergono ed emergono con le contingenze della sorte.
Stella sta fra Dio e gli dei, un po’ in chiesa un po’ in giro per i boschi con l’eco lontana di antichi riti. Si sopravvive alla miseria, ai soprusi, con le preghiere e la forza del contraffascino, il destino lo si sfida fra confessioni al prete e rituali magici che profumano di menta. Stella è bellissima, la più bella ragazza di Ievoli, forse nemmeno in tutta la piana da Nicastro a Sambiase, a Sant’Eufemia, esiste una creatura così bella. E forse in tutto il piroscafo colmo di umanità in transumanza, una più bella di Stella Fortuna non la si può trovare, ma nelle tante esistenze di lei c’è una ragione più grande della sua vita che la sostiene, e anche l’amore è un motivo di scontro con l’universo maschile.
Lei è nata per non piegarsi, non si piegherà mai, nonostante gli attentati alla sua vita, nonostante i fantasmi che la perseguitano. E c’è una ragione se la parte italiana di Juliet Grames l’ha costretta a parlarci di Stella, a farne una saga familiare che è caso editoriale negli Stati Uniti, che è già pubblicato in venti Paesi. La ragione sta nella ricomposizione di un mosaico che manca di tanti tasselli, nascosti da un’ipocrisia italiana, soprattutto meridionale: la Calabria di Stella è un tesoro di colori, di profumi, ma anche un secchio di acqua marcia. La durezza di un mondo medievale, declinato al maschile ce la abbiamo avuta sull’uscio fino a qualche anno fa, facendo finta di non vederla, e ancora adesso, ogni tanto, quella tragedia rispunta. Juliet Grames arriva dall’America, con “La storia di Stella Fortuna che morì sette o forse otto volte”, in libreria per Harper and Collins (traduzione di Valeria Bastia), ci costringe a parlare di noi stessi, a vedere la nostra terra in tutte le sue meraviglie e tragedie.
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