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Ci manchi, Maestro Andrea

Chissà se Andrea Camilleri (fosse ancora tra noi), pensando alla Moby Zaza, la nave-lazzaretto con i migranti nel mare di Porto Empedocle, avrebbe trasformato questa triste realtà in una delle sue storie. Perché il maestro – oggi il primo anniversario della morte – diceva che le storie non le sapeva inventare di sana pianta, aveva sempre bisogno di una spinta di verità. Fosse ancora tra noi, per lui capace di leggere con saggezza oracolare il tempo presente e le questioni più urgenti dell’attualità, guardare la scena con gli occhi di Montalbano sarebbe stata una forte seduzione. Dalla luce meridiana del suo mare, di cui da adulto, come da bambino, continuava a sentire la voce anche da lontano, alle ombre della storia. Avrebbe cominciato da lì, in questa strana estate, dalla battigia selvaggia della costa iblea, tra specie endemiche di vegetazione mediterranea e arse dune sabbiose, da quel “colpo d’occhio” tutto leopardiano, oltre quel mare-cartolina, verso quella nave, così sospesa e allucinata tra ombre e tagli di luce, in quel precipitare di azzurri di cielo e mare (gli stessi di Antonello e Guccione).

Ci avrebbe costruito un romanzo, genere che Verga considerava «la più completa e la più umana delle opere d’arte», un altro della saga montalbaniana, con dentro carnefici e vittime, ammazzatine e delizie gastronomiche, inganni e menzogne, candore e malizia, meraviglie e tragedie, amore e morte, insieme a tutti i naufraghi che si agitano sulla fragile zattera dell’esistenza. E con il carico da undici di farfanterie e sfunnapedi, per stanare il male.

Dalle ombre, dalla parte notturna della vita, del presente e del passato ingoiati dall’oblio o dall’indifferenza, Camilleri traeva impeto narrativo spalmato sui romanzi, storici, civili, polizieschi che nell’abbraccio osmotico di generi e sottogeneri partono tutti dall’assioma che «nel labirinto della verità aggiustata questa convinci sempre cchiù ddella verità nuda e cruda». Con la medesima istanza di giustizia che, tra farse tragiche, drammi grotteschi e giochi delle parti, dalla Vigàta ottocentesca si dilata sino a quella di oggi, teatro del mondo dove tutto avviene, «una Macondo o una Narnia, patchwork di molti luoghi», ricorda Nadia Terranova. «La gabbia più vera per uno scrittore è il romanzo giallo» gli aveva detto un giorno Sciascia. E nel perimetro di quella gabbia il narratore tesse trame dalla geometria imperfetta in cui le rette parallele delle vicende, contrariamente alla logica, finiscono per incontrarsi. Lasciando i personaggi straniati e il commissario solo nel suo «rumorosissimo silenzio», mai consolatorio sempre provocatorio, molto sciasciano, come il maestro diceva a Marcello Sorgi in “La testa ci fa dire” (Sellerio), il bel libro-intervista denso di ricordi e avventure di vita. Raccontava volentieri il suo romanzo personale Camilleri, una lunga conversazione dipanata in tante interviste, in tanti incontri, e in diversi testi, da “La testa ci fa dire”, appunto, a “La Linea della palma”, dialogo con Saverio Lodato, da “Le parole raccontate” e “L’ombrello di Noè” a “Vi racconto Montalbano”, da “La lingua batte dove il dente duole”, conversazione con Tullio De Mauro a “Tutto Camilleri”, conversazione con Gianni Bonina, a “Ora dimmi di te. Lettera a Matilda”.

«Bisogna mantenere viva la memoria, anche dei sogni», diceva il maestro. E raccontava-narrava le memorie dell’infanzia, le più potenti, forse perché a quell’epoca tutto è una scoperta o uno strappo, nonna Elvira che leggeva al piccolo Nenè “Alice nel paese delle meraviglie” e le poesie in dialetto di Meli, i fumetti comprati da papà, l’opera dei pupi in un negozio sotto casa, dove si divertiva ascoltando l’italiano storpiato dei dialoghi, i cunti in dialetto del mezzadro Minicu, e, lettore precoce, i libri, le edizioni Mondadori per ragazzi alternati ai libri della biblioteca di casa, Conrad, Melville, Defoe, Stevenson, Kipling, London, Salgari e Verne e, ancora, le riviste e i testi teatrali messi a disposizione dalla grande biblioteca dello zio Alfredo Capizzi, medico e grandissimo lettore. E la famiglia, la brigata eroicomica degli amici, gli anni tumultuosi del collegio, i suoi insegnanti del liceo classico ad Agrigento, il fascismo, la guerra, la partenza dalla Sicilia. A farlo “uscire di casa” fu la poesia quando, studente universitario, da Porto Empedocle e da Palermo, inviava poesie poi pubblicate su “Mercurio” di Alba De Cespedes, su “Inventario”, condiretto da Eliot, e, tramite Ungaretti, sullo “Specchio” di Mondadori. Poi andò via veramente nel ’49, ventiquattrenne, con l’aiuto economico dello zio Massimo (che vendette i ceci…), dopo aver vinto il Premio “Firenze” per il teatro, a «fare il saltimbanco», come disse qualcuno, ma non i suoi genitori, mamma Carmelina Fragapane e papà Giuseppe, appassionati lettori, desiderosi che il loro unico figlio seguisse le sue passioni. Divenne un «siciliano di mare aperto», per usare le parole di Vittorio Nisticò, per desiderio e per necessità di lasciare lo “scoglio”, ma i suoi nostoi non agitavano fantasmi e guardò sempre con sospetto alla categoria della “sicilitudine”. E poi, c’erano Roma, l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, il maestro Orazio Costa, la Rai, gli incontri con poeti, attori, scrittori, critici, editori. La scrittura e lei, la signora dei libri, Elvira Sellerio. Così divenne il “caso Camilleri”.

Vivere sulla frontiera di dialetto e lingua italiana era stimolante per Camilleri, che sin da bambino studiava la potenza immaginifica della parlata epicorica agrigentina. Adolescente, sperimentava in collegio il gioco dell’accipe (= prendi, dal latino) che consisteva nella penitenza di prendere l’accipe (concretizzato in un legnetto) se si fosse pronunciata una parola in dialetto, dato il divieto di farlo e le conseguenti punizioni dei superiori. Da adulto, ormai docente di teatro e regista, il maestro sa che l’uso corretto delle parole (che non esclude il dialetto, anzi), è una questione di etica civile. E quando, dopo una lunga gestazione, viene pubblicato nel 1978 “Il corso delle cose” (lo aveva letto nel ’68 Nicolò Gallo, raffinato critico e consulente editoriale della Mondadori, poi morto improvvisamente) inizia l’operazione di inserire nel tessuto narrativo tessere popolareggianti come nella migliore tradizione teocritea, mescolando la lingua col dialetto, il sublime con il basso e il grottesco. Una necessità espressiva quella di costruire il personaggio nel suo linguaggio, assieme a quella di salvare le parole prima che si ossidassero o perdessero il loro suono. Lo faceva sempre, anche quando nella cecità, nel buio, o nei suoi sogni a colori (un risarcimento notturno), arrivava dritta la parola che acquista un peso.

Si commosse – raccontava – quando un giorno, mentre scriveva la “Biografia del figlio cambiato” trovò in un libro l’espressione «cara pizzipiturra» che Pirandello in una lettera rivolgeva alla sorella, si commosse perché anche sua nonna Elvira lo chiamava pizzipiturro, «presuntuoso». «Bisogna infilarsi nelle orecchie una lingua» diceva Camilleri e perciò svolse un costante lavoro demofilologico di ricerca linguistica, attingendo, come Verga e Pirandello, alla antichissima tradizione paremiografica siciliana, e alla viva voce di suoi “corrispondenti”. Insieme al rispetto per il lettore (del resto la sua scrittura s’ingravidava grazie al lettore stesso), lui sapeva scrivere, a lui piaceva scrivere, così.

«Riccardino, chi è costui?» così pensa – o sogna – Salvo Montalbano, svegliato nel cuore della notte dalla telefonata di un tale Riccardino a lui sconosciuto e che di lì a poco troverà morto sulla scena di un delitto. “Riccardino” è il metaromanzo visionario che chiude l’epopea montalbaniana, consegnato da un Camilleri ottantenne, che intanto inventava nuove storie, a Elvira Sellerio tra il 2004 e il 2005, con la condizione che sarebbe stato pubblicato postumo, un giorno…. Poi, scomparsa Elvira, “Riccardino”, ereditato da Antonio Sellerio, venne rivisto, stilisticamente e linguisticamente, dallo scrittore nel 2016. Da ieri è in libreria, in due versioni: quella definitiva e quella “filologica” che comprende entrambe le versioni, del 2005 e del 2016, con una nota di Salvatore Silvano Nigro, critico raffinato e autore di tutti i colti risvolti di copertina dei romanzi di Camilleri.

Montalbano sente il peso del tempo e ha sempre più timore che il mondo finisca in mano agli imbecilli. Ma stavolta, il commissario “vero” dovrà fare i conti con il suo doppio televisivo, con il quale ormai anche la gente lo confonde. Tutto era iniziato quando uno «scrittore locale», un tale Camilleri (storpiato in Cavilleri da Catarella, anche lui un doppio dell’autore, nell’arte dello sgorbio che piaceva tanto al maestro), «una gran camurria» – ma il nome sparisce nella seconda versione – , ne aveva fatto un romanzo, e se all’inizio, «dato che in Italia leggono quattro gatti» esso era passato sotto silenzio, poi con la trasposizione televisiva, aveva avuto un successo enorme. Ma quel che faceva «firriare i cabbasisi» al commissario era che l’altro, quello della fiction, non gli assomigliava ed era di quindici anni più giovane. Insomma un Montalbano che si lamenta della vecchiaia e del suo doppio, situazione apertamente pirandelliana che chiude il cerchio, giacché anche il primo Camilleri del “Corso delle cose” metteva in scena situazioni pirandelliane. È l’ultima magia dell’immenso maestro e “Riccardino” ci restituisce un «narratore vivo e vegeto» scrive Maurizio de Giovanni, «perché sappiamo dove trovarlo, nelle nostre librerie, dove ci aspetta sempre». Meno male, Maestro.

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