Negli ultimi anni, la parola «paese» ha occupato un posto di rilievo nei media, nel discorso pubblico, negli studi e nelle riflessioni scientifiche, nelle strategie economiche e politiche di diversi Stati. Un’attenzione non di rado paradossale: si manifesta quando l’antico costrutto sociale che reggeva il paese si è dissolto o è completamente mutato e, nel contempo, enfatizza, con stupore e languore nostalgico, ammirazione e sorpresa, la vita borghigiana come se il paese non fosse stato, fino a un decennio addietro, il luogo antropologico «universale» dove per millenni è vissuta la quasi totalità (poi la maggioranza) della popolazione mondiale.
Dagli anni cinquanta del Novecento assistiamo al graduale abbandono dei paesi, fino alla situazione attuale in cui la quasi totale desertificazione di aree interne, colline, montagne è un fenomeno che accomuna Nord e Sud, annullando presunte dicotomie geografiche. Il vuoto spaziale e demografico dà origine a una sorta di spazio di nessuno, una «frontiera» poco conosciuta e poco frequentata. Dalla melanconia da catastrofe e isolamento i paesi dell’interno sono passati a quella della partenza e dell’abbandono. Tutto questo ha comportato una profonda trasformazione di valori, pratiche sociali, relazioni tra le persone, e la quarantena non ha fatto altro che segnalare, amplificare, fotografare un vuoto, una solitudine, un silenzio che già abitavano i piccoli paesi. «Non c’è nemmeno un’anima fuori»; «Mai visto il paese così vuoto»; «Un silenzio e una solitudine che fanno paura»: così leggo, durante questi giorni di pandemia, su blog e gruppi del paese in cui abito. Dal Canada, un emigrato commenta: «Io veramente, tutte le volte che sono tornato l’ho visto sempre così». Ha ragione, perché, il mio paese – come gli altri paesi dell’Appennino, delle aree interne, delle Alpi – era vuoto da tempo, con le sue case e le sue «rughe» chiuse, con le porte e le finestre quasi cadenti, mentre il paese «abitato» era altrove, all’indietro, nelle mie nostalgie e nelle mie fantasie, al cimitero o a Toronto e nelle altre città del mondo dove negli ultimi sessant’anni avevano trovato lavoro, pane e fortuna quei paesani, che continuavano a sognare ritorno e non tornavano, a sistemare case che poi non aprivano...
Oggi, a inquietare e creare angoscia sono, piuttosto, le immagini delle grandi città vuote, le loro piazze deserte, il papa che si aggira in solitudine in una Roma spettrale e che celebra messa nel luogo emblematico della cristianità che sembra essere stato allestito da un regista che gira un film sull’Apocalisse. Sono le città ad essere diventate deserte, invivibili, apparentemente vuote come i piccoli centri e, non a caso, sempre più persone vogliono fuggire dalla città e tornare o andare in case chiuse dei paesi che avevano abbandonato per sempre o temporaneamente. E adesso non mancano coloro, anche archistar, prima annebbiati da visioni urbanocentriche, che prefigurano il futuro dell’umanità, o quantomeno dell’Italia, nei piccoli borghi in abbandono.
Il coronavirus ci costringe a ribaltare i paradigmi e le incrostazioni ideologiche del passato, ad andare oltre le distinzioni e le opposizioni città-paese, metropoli-campagna, centro-periferia, moderno-arcaico, produttivo-improduttivo, aree interne-pianure, vuoto-pieno, Nord-Sud, rimasti e partiti, rimasti e nuovi arrivati o in attesa di arrivare. Adesso, forse, si può affermare con altra convinzione e determinazione, con altre azioni culturali e politiche, la necessità di ribaltare lo sguardo, di guardare la pianura dalla montagna, di ripartire dalle periferie e dai margini per «riabitare l’Italia» e rigenerare i luoghi. Non del ripristino dell’antico, ma di un «ritorno» a qualcosa di nuovo, profondamente mutato. Pavese di «un paese ci vuole» e De Martino di un «villaggio nella memoria» hanno osservato che non si può più tornare al paese né lo si può ripristinare. Il paese, dalla fine dell’Ottocento in avanti, e soprattutto dai primi anni cinquanta del secolo scorso, ha conosciuto una lenta, prolungata, inarrestabile pandemia, che ne ha modificato l’aspetto urbanistico e architettonico, l’organizzazione dello spazio, le forme della produzione, e allo stesso tempo ha subito l’insorgenza di economie assistite, di nuove forme di dipendenza dai gruppi di potere, anche criminali, di nuove relazioni tra i suoi abitanti, di una diversa mentalità e anche una sorta di apatia e rassegnazione dei suoi ultimi abitanti che spesso tendono a credere che tutto sia accaduto e che il cambiamento non sia più possibile.
Naturalmente, non bisogna avere un atteggiamento sterilmente nostalgico. Il paese, che ormai va considerato nelle sue nuove e ridotte dimensioni demografiche, ma anche nelle possibili più vaste aggregazioni intercomunali o territoriali, deve essere guardato nei grandi mutamenti conosciuti nella sfera quotidiana, rituale, festiva, simbolica e della sua integrazione nei circuiti vasti del mondo esterno. La rete, Internet, i nuovi mezzi di comunicazione non solo consentono l’ingresso nel mondo globale, ma hanno generato nuove forme di comunicazione tra chi è partito e chi è rimasto, dando origine a un luogo insieme reale e virtuale, che da un lato ha sfarinato l’antico paese e dall’altro lo reinventa come una nuova comunità possibile – la «neo-comunità» –, con possibilità e potenzialità un tempo impensabili. Rende possibile, in teoria, quel legame tra tradizione e modernità, passato e presente, memoria e futuro, senso orizzontale e generazionale dei legami, radicamento e sradicamento, spaesamento e nuove forme di appaesamento, partenze da fermi, ritorni senza tornare, che potrebbero far nascere qualcosa di inedito. Se non bisogna cedere alle immagini del paese, dei margini, delle periferie come luoghi del «postumano», è innegabile che nel «piccolo luogo» si possono ripensare nuovi modi di abitare, stabilire connessioni più dense con la natura, la terra, gli animali, il tempo e inventare una nuova socialità e pratica di vita.
Occorrono dunque sguardi nuovi, profondi, attenti, amorevoli: non superficiali, interessati o ubbidienti a logiche neo-moderniste applicate proprio ai luoghi distrutti dalla modernità. Il richiamo al paese come luogo puro e incontaminato, in cui ci si muove ammirati, commossi, in attesa che la vita riprenda in un imprecisato futuro, prescinde completamente da ciò che il paese è diventato: non più luogo, in cui il vuoto ha preso il posto del pieno, desertificato dalla devastazione antropologica e sociale conseguente a un cinquantennio di fughe, da crisi economica e demografica, assenza di servizi di cittadinanza.
In un periodo in cui la montagna e le zone interne non sono più considerate marginali, ma vengono scoperte nelle loro risorse ambientali, paesaggistiche, culturali, tante persone hanno scelto e scelgono di tornare o di restare. Paesaggi, prodotti tipici, monumenti e beni immateriali possono attrarre flussi turistici, innescare processi economici e dinamicità, mettere in moto iniziative locali. Il cibo, le acque, il silenzio, la tranquillità, i tempi lenti sono beni valorizzabili, a condizione di non svenderli e di promuoverli in maniera adeguata, senza l’enfasi spesso presente in un generico revival meridiano e in anguste e neoromantiche retoriche identitarie...
Il virus ci ha insegnato che ogni luogo può essere periferia o centro del mondo; che la nostalgia può essere rivolta in avanti e non all’indietro. I luoghi, i paesi, i centri storici, le città, le periferie non potranno rinascere se non si inventa una nuova idea dell’abitare e della rigenerazione, se non si ristabilisce un rapporto con la terra, il paesaggio, il mondo animale, i luoghi della produzione, le persone.
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