Lunedì 23 Dicembre 2024

"Nel mare ci sono i coccodrilli", intervista a Geda e Akbari: le storie, come le persone, ritornano

Dieci anni dopo, riecco Fabio Geda e Enaiatollah Akbari, di nuovo insieme per riprendere il filo di una storia che ha venduto più di 600mila copie, facendoci viaggiare attraverso il Mediterraneo, in balia delle emozioni. Stiamo parlando di “Nel mare ci sono i coccodrilli” (Baldini+Castoldi, 2010), un avventuroso racconto di vita vera che parte in Afghanistan, luogo di nascita di Enaiat, sino al suo arrivo in Italia, fra mille peripezie – dall’Iran alla Turchia, dalla Grecia sino a Torino – viaggiando a piedi e rinchiuso nei cassoni dei camion, con la paura dei lupi e dei predoni, con il terrore dei coccodrilli. Un viaggio della speranza e verso il futuro, intrapreso da un gruppo composito di bambini che diventano improvvisamente adulti rischiando la vita. Una storia che lo scrittore torinese Fabio Geda – narratore appassionato, autore di romanzi per ragazzi e adulti – ha voluto fortemente raccontare, incontrando per diversi anni al fianco di Enaiatollah centinaia di scolaresche di tutte le età, aprendo gli occhi, strappando il sipario su ciò che accade agli altri, a chi è meno fortunato e vive laggiù, oltre l’orizzonte, lontano dallo sguardo dei social network. Quella storia terminava nel 2008, quando Enaiat per la prima volta riusciva a parlare al telefono con la madre, dopo il lungo viaggio. E adesso con “Storia di un figlio. Andata e ritorno” (Baldini+Castoldi, pp.192 €16) ricuciremo la distanza, scoprendo anche com’è andata la vita di Enaiat e della sua famiglia dopo essersi ritrovati e quali frutti ha prodotto la guerra contro il terrore scatenata dall’Occidente. Fabio e Enaiat co-firmano il nuovo libro e in questa intervista per Gazzetta del Sud riprendono le fila del discorso, fra la violenza del fondamentalismo, l'amore, il valore dell’amicizia e l’avventura più grande: diventare uomini e poter pensare al futuro cui si va incontro senza paura di ciò che accadrà domani. Fabio per tanto tempo ti hanno chiesto se ci sarebbe stato un seguito. Perché adesso? «In parte perché dovevamo attendere che il seguito “accadesse”, ossia che il presente di Enaiat si trasformasse in passato, e in parte perché tutto dipendeva dai suoi tempi di rielaborazione. Le storie, soprattutto quelle vere, e tra quelle vere soprattutto quelle intense e complesse, hanno bisogno di essere elaborate da chi le ha vissute. Il seguito è arrivato adesso perché solo adesso Enaiat ha trovato la voglia, la forza, la motivazione di rimettersi a lavorare sulla vita sua e della propria famiglia. Io, da narratore, non potevo fare altro che rispettare il suo percorso e stargli accanto. Lui sapeva che quando il momento giusto sarebbe arrivato, io ci sarei stato». Enaiat, la forza del primo libro era un dialogo fra voi, la spontaneità delle emozioni. Questa volta come vi siete organizzati? «Anche questa volta, in linea generale, abbiamo seguito il metodo dei coccodrilli. Ma stavolta il libro è anche il risultato di un lavoro di ricerca e lo studio dovuto alla mia laurea in scienze politiche. Ho studiato molto il mio Paese, il mio popolo, gli Hazara (una minoranza etnica che vive prevalentemente in una regione montuosa dell'Afghanistan centrale, ndr) e in qualche modo volevo inserire la mia storia personale in quella storia grande, con la “esse” maiuscola. Certo è che, di base, il nostro lavoro si fonda sulla fiducia reciproca tra me e Fabio, condividendo uno sguardo, un modo di raccontare le cose, una leggerezza, che, come dice sempre Fabio, ci accomuna spontaneamente». Fabio, “Nel mare ci sono i coccodrilli” è stato un libro epocale. Facciamo un passo indietro. Come nacque quel libro? «Io ed Enaiat ci siamo incontrati durante una presentazione del mio primo romanzo. Lui era stato invitato a fare da controcanto, con la sua storia vera, alla storia da me inventata (“Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani”, 2007, successivamente riedito da Feltrinelli) di un ragazzino romeno che viaggiava da solo, in Europa, per cercare suo nonno. Quando l'ho sentito parlare, e raccontare, ho percepito una grande sintonia tra il suo sguardo intelligentemente ironico sulle proprie drammatiche vicende, e quello che io tentavo di fare con la mia scrittura. In quel momento, quella sera stessa, "Nel mare ci sono i coccodrilli" ha cominciato a nascere». Enaiat, quel testo vi ha portato in moltissime scuole, un viaggio iniziato insieme che poi Fabio ha proseguito da solo (visitando anche le scuole di Messina e provincia). Le reazioni degli studenti delle diverse età vi hanno stupito? «Quando è uscito “Nel mare ci sono i coccodrilli”, dieci anni fa, queste storie non erano così note al grande pubblico, quindi la reazione della maggior parte dei ragazzi, ma non solo, anche degli adulti, era di stupore e compassione. Tra noi e gli studenti si è sempre creata una buona empatia. Ovunque sono stato ho percepito attenzione e grande interesse. La loro curiosità di pormi delle domande di ogni genere mi ha fatto crescere e per questo scambio, così ricco e intenso, sono davvero grato». Fabio, poter viaggiare con Enaiat ha cambiato lo sguardo sul mondo di molti lettori. Ogni libro è politico? «Ogni libro è politico, così come ogni nostro gesto e ogni nostra parola. Potrei anche dire che nulla, nella vita, è inerte da un punto di vista educativo. Sulla scala dei valori che vorremmo far crescere nella consapevolezza dei cittadini ogni cosa o ha un segno più o ha un segno meno. Lavorare sull’empatia è importante così come lavorare sui dati. Servono storie che ti facciano vestire emotivamente i panni degli altri e servono informazioni accurate che ti facciano comprendere a livello scientifico le dimensioni di un problema». Enaiat, oggi come ti sembra questo mondo fra muri, razzismo e sovranismo? Ti fa paura? «A volte sì, mi fa paura. Purtroppo, l’impressione è che in alcune parti del mondo si stia normalizzando il fatto che esistano esseri umani di serie A e di serie B. Una parte di pubblico sembra anestetizzata di fronte al fatto, ad esempio, di lasciare morire la gente in mezzo al mare o di tenere donne e bambini in ostaggio in mezzo su una barca per i giorni, come fossero cose e non persone. Ho paura che questi atteggiamenti si normalizzino. Ma allo stesso tempo il mio cuore è pieno di speranza, perché vedo gli sforzi di associazioni, volontari, semplici cittadini, a volte anche di politici, per trovare nuove soluzioni, nuovi equilibri e diffondere una cultura dell’accoglienza e del supporto reciproco». Fabio, la tua vita ruota intorno alla scrittura e ai libri. Cosa significa per te scrivere e raccontare storie? «Noi siamo le storie di cui ci nutriamo. Siamo i libri e i giornali che leggiamo, le radio che ascoltiamo, le persone con cui parliamo. Siamo le informazioni che ci rimbalzano davanti agli occhi sui social network e che a nostra volta condividiamo facendole rimbalzare davanti agli occhi degli altri. Tutte queste informazioni compongono una certa idea di mondo che indirizza il nostro punto di vista sulle cose. In modo più o meno consapevole, poi, sulla base di quelle narrazioni decidiamo chi vogliamo essere, andiamo a votare, stiliamo la lista delle nostre priorità e interagiamo con gli altri. Le storie influiscono sullo sguardo così come il cibo sul corpo, e come il cibo possono essere sane o tossiche, riempire i pensieri di grasso o di fibre, aumentare o ridurre la qualità della nostra vita. Ecco, avrei potuto fare il panettiere e offrire alla gente un buon pane. Invece mi sono trovato a scrivere, e quello che cerco di fare è offrire alla gente delle buone storie».

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