«La poesia si apre ai nostri occhi e al nostro cuore ed è un processo che esplora il profondo dell'essere umano, la vita stessa attraverso il linguaggio. La poesia è linfa vitale, il legame fra la vita e il linguaggio. Ciò vale sia per lo scrittore che per il lettore. Il poeta ha una grande responsabilità, l'ha avuta nell'antichità, alle origini del pensiero, e ce l'ha oggi, in questo periodo interessante ma di grande caos e complessità politici». Così parla il poeta cinese Yang Lian, uno degli ospiti più attesi del Festivaletteratura 2020 (e uno dei pochissimi stranieri presenti in questa edizione). Aspetto ascetico, lunghi capelli, si rivolge con grande generosità ai giornalisti che nello splendido chiostro del Museo Diocesano di Mantova lo interrogano sulla poesia, sulla politica, sulla Cina; e lui, che è cittadino del mondo (oggi vive tra Berlino e Londra, ma è nato in Svizzera, nel 1955, da una famiglia di diplomatici: è in esilio dalla Cina fin dai fatti di piazza Tienannmen) risponde da poeta, che appartiene a tutti, e sente su di sé anche la dimensione dell'esilio, propria della poesia.
È la grande contraddizione del mistero della poesia, un racconto che dalla sua apparizione aurorale, sin dai grandi poeti dell'antichità della tradizione occidentale (e cita Virgilio, Ovidio e Dante) e di quelli della tradizione orientale (e cita il poeta Qu Yuan, vissuto più di 2000 anni fa) hanno fatto filtrare una visione del mondo facendola incontrare con l'attualità. È questa la cosa meravigliosa, questa continuità attraverso la quale si può riflettere sullo stesso ius humanum, su cosa significhi essere uomini, sul senso stesso della vita e della morte, del tempo e dello spazio. Sulle grandi domande di sempre, su noi oggi e su quelli di prima che ci hanno preceduto, sui morti che non possono essere dimenticati.
Una vera lezione di bellezza, la bellezza sacra del mondo filtrata dalla poesia, quella impartita da Yang, traduttore e teorico della letteratura oltre che poeta: i suoi libri sono tradotti in più di venti lingue, come scrive Tomaso Kemeny, nella prefazione di “Origine”, il volume di Jaca Book che raccoglie liriche selezionate nella versione inglese (tra l'altro, è autore del libro-oggetto d'arte Veneice Elegy, realizzato con Ai Weiwei, l'artista dissidente cinese più famoso al mondo, ed ha vinto moltissimi premi, dall'Internazionale Flaiano nel 1999 al Nonino nel 2012 fino al Capri nel 2014 e al Sulmona nel 2019).
Anche se la poesia non ha tempo, perché, dice Yang «molti amici mi chiedono di versi che a loro sembrano attuali ma che ho scritto magari più di trent'anni fa. Il fatto è che io stesso quando li rileggo li guardo con un terzo e anche con un quarto occhio. È una sorta di collaudo della scrittura e questo tocca il mio profondo».
Lei vive lontano dalla Cina. Per scelta o perché vi è costretto?
«Mi dispiacque molto non essere presente in Cina nel 1989 durante la tragedia di Tienanmen. Ero fuori, in Nuova Zelanda, ma lì in piazza c'erano i miei amici. Sapevo però che due miei libri di versi erano stati messi al bando e mi parve che la stessa poesia e non solo il poeta in sé venisse messo al bando. Quello fu il mio primo giorno di esilio, scelto per aumentare la mia comprensione del mondo, vivendo in una dimensione internazionale, e quella della Cina stessa. Perché la poesia deve rifiutare ogni controllo politico».
Cosa pensa della Cina di oggi, in questo momento così difficile?
«La Cina rappresenta un caso complesso a livello politico, economico e sociale. Dopo la rivoluzione culturale, che è stata un buco nero della storia, ci sono stati molti cambiamenti, soprattutto negli ultimi dieci anni, ma insieme al cambiamento persistono il socialismo e il capitalismo peggiori, perché il controllo del potere coincide con quello del denaro. Non c'è mai nulla di chiaro, nessuna consegna, nessuna informazione è chiara. Si vuole distruggere il pensiero individuale e questo significa fare passi indietro verso il passato. Ogni giorno si sente dire di intellettuali arrestati o censurati. Rimangono le tenebre, persiste la grande ombra sulla storia».
E come la poesia può resistere in queste condizioni?
«Bisogna fare i conti con questo, è questa la grande sfida. Conciliando la tradizione classica con l'attualità. Leggendo e curando poeti come Qu Yuan che scriveva un lungo poema con le sue domande al cielo racchiudendole in una forma squisita di sette caratteri per ogni verso strutturati in otto versi, in tutto cinquantasei versi per strofa che rappresentano un universo, ma anche i poeti di oggi, tra i quali in Cina ci sono lavoratori migranti prelevati dalle campagne e obbligati a lavorare nelle fabbriche per pochi soldi. Sembra che siano invisibili, che non esistano, ma scrivono della loro esperienza, stabilendo uno stretto legame tra vita reale e realtà del linguaggio e aumentando la nostra consapevolezza delle dinamiche del periodo attuale. Non si deve permettere che la poesia sia abbandonata».
Lei scrive in cinese e parla della squisitezza formale della poesia di Qu Yuan, insistendo sulla forma che la poesia deve avere. Ma come si concilia il rispetto della forma con il fatto che lei è tradotto in tante lingue?
«Io sono uno dei poeti che vive la dimensione internazionale della poesia e sono a favore del progetto Poetry Translation. Credo nella traduzione, essenziale per gli scambi internazionali. Credo nella globalizzazione della poesia, molto più importante di quella economica. Non penso, come dicono alcuni, che la poesia sia impossibile da tradurre, certo è una grande sfida, ma si tratta di trasformare le grandi domande della vita in un'altra lingua e incanalarle nell'immagine creativa dello scrittore. Tutto questo è simile dappertutto. Possiamo leggere l'originale e quando cerchiamo lo strato più profondo ci dobbiamo tuffare in quell'oceano. Allora il traduttore deve ricostruire quella esperienza nella lingua scelta. La traduzione non consiste nel tagliare l'albero o spostarlo, ma arrivare alle sue radici e far nascere un altro albero: due o più alberi dalle stesse radici».
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