Parlare di e con Dante, con il “suo” Dante di cui aveva raccontato i giorni e le opere come in un romanzo, sedere al convivio della bellezza tra Dante stesso, Petrarca, Boccaccio, Leopardi e Pascoli, suoi temi di ricerca appassionata, per Marco Santagata, scomparso a 73 anni per complicanze dovute a quella lupa famelica che è la Covid, era un confronto quotidiano e vitale con la letteratura e con i libri. È andato via, Santagata, poco prima di una data importante, il 700esimo anniversario della morte del sommo poeta che ricorrerà nel 2021 e per il quale aveva scritto, per Guanda, un altro romanzo “dantesco”, che uscirà la prossima primavera, con protagonista un Dante negromante, che ben si muove fra i tre mondi, il tempo e i numeri, un Dante esoterico che ci invita a mirare «la dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani». Ma Santagata, modenese di Zocca, già ordinario di Letteratura italiana a Pisa, fine filologo e accademico di fama internazionale, scrittore, vincitore del Super Campiello 2003 con “Il maestro dei santi pallidi”, e del Premio Stresa 2006 con “L’amore in sé”, finalista al Premio Strega 2015 con “Come donna innamorata” (tutti Guanda), era un dantista speciale, perché di Dante, che col suo genio ci solleva a ebbrezze di contemplazione metafisica come ci trascina davanti al peggio e al meglio dell’esperienza umana, del “nostro” Dante, che aveva in sé il sentimento della lingua italiana, da lui “inventata” prima ancora che vi fosse un’unità politica del nostro Paese, Santagata aveva raccontato il romanzo della vita. Restituendoci sia in “Dante. Il romanzo della sua vita” (Mondadori 2012) che in “Come donna innamorata” (Guanda 2015) un Dante intimo e appassionato, vivo e umano, geniale e ambizioso, giovane poeta che in cerca della sua Musa vive la malia dell’amore, un everyman eccezionale consapevole del suo valore, che in continuo movimento vive, profondamente calato nella vita culturale e politica della sua città e dell’Italia, certezze, dubbi e drammi, tra problemi familiari, botteghe, amici, tenzoni, studi e disputazioni filosofiche, e poi tra municipalismi, difficili convivenze politiche, tradimenti. Da leggere o rileggere, i romanzi “danteschi” di Santagata, magari insieme ai Meridiani delle opere dantesche “minori” da lui curati, forse perché oggi abbiamo bisogno, più che mai, di essere disarmati dalla vertigine del bello, dalla sua virtù taumaturgica. Chi scrive lo aveva intervistato su questo giornale, insieme ad altri illustri dantisti, in occasione di un convegno organizzato a Messina nel gennaio 2016 dal liceo classico “La Farina” per il 750esimo anniversario della nascita del divino poeta. E il professore Santagata fu, in città, presente, con gli altri relatori, a quel convegno nel quale svolse una suggestiva lezione in cui parlò di “Liturgie battesimali fiorentine nel Paradiso terrestre”. E mostrava come Dante, attraverso il punto di contatto, costituito dal rito battesimale, tra il simbolismo edenico e la realtà fiorentina, faccia trasparire quasi in controluce concrete azioni da lui viste e forse compiute nella sua Firenze. E spiegava, il professore, come anche in una rappresentazione come quella Dante non si distacchi, come al suo solito, dalla propria personale esperienza. Infatti, quando gli chiedemmo qual è l’attualità di Dante, perché leggerlo e studiarlo, Santagata ci rispose che «uno dei tratti di straordinaria modernità della scrittura di Dante è la capacità di riprodurre i meccanismi di percezione del reale propri dell'esperienza umana. Il lettore della Commedia – diceva – si muove in essa come chi capita in una città sconosciuta. Tra la folla questi può riconoscere qualcuno ma il più delle volte si imbatte in sconosciuti. Allo stesso modo il lettore della Commedia percepisce l’universo fittizio del libro: a volte, con cognizione piena; altre, con cognizioni parziali; spesso per induzione o per intuizioni; non di rado, senza comprendere ciò che vede e ascolta. Lo stile della Commedia che resta più impresso è quello relativo ai modi diversi di rappresentare la realtà».