Lunedì 23 Dicembre 2024

Tornare a lui, rifarlo vivo: Gesualdo Bufalino, custode della sapienza e anima della Sicilia

Un portico dall’architettura classica, e un uomo di profilo tra due colonne, le mani dietro la schiena, la coppola calcata sulla testa a insistere sui grossi occhiali, i piedi ben piantati a terra, a sottolineare la sua viscerale appartenenza a quel luogo, la sua figura intatta, come fosse già pronta a entrare nella notte. "Un’immobilità viva", come diceva Barthes nel suo studio sulla fotografia, quella di Gesualdo Bufalino, colta nel suo kairos dallo scatto, uno solo, di Giovanni Iemulo, bibliotecario e dal 1994 responsabile del Fondo Bufaliniano a Comiso. Bufalino passeggiava – ci dice Iemulo – in una mattina grigia del febbraio 1996, nel suggestivo ex mercato ittico divenuto complesso museale, oggi sede della Fondazione Bufalino, in attesa di un fotografo iraniano che doveva realizzare un lavoro sulla raccolta di poesie “L’amaro miele”, ma nel momento dello scatto era fermo, come pensoso. Un’immagine che fa da contrappunto a tante altre, tra le quali quelle bellissime di Giuseppe Leone, con un Bufalino in movimento, dal sorriso indecifrabile, quasi misterioso, tra i suoi libri, tra i suoi amici Sciascia e Consolo, o per le vie della sua Comiso. All’ex pescheria, in quella sua seconda “casa”, in attesa che il comune ne deliberasse l’acquisto e la creazione della fondazione a suo nome, Bufalino andava ogni mattina, ci aveva portato lui stesso da casa sua i suoi libri (assieme alla videoteca, alla raccolta di dischi e alle raccolte epistolari), collocati nel modo che aveva disposto, come ci racconta lo scrittore e giornalista Gianni Bonina, che lo ha ben conosciuto. Una biblioteca nella quale i libri non possono essere dati in prestito, ma solo consultati, "perché Bufalino, morbosamente legato ad essi, riteneva che studiosi e studenti potessero rimanere seduti come a scuola e a contatto diretto con il mondo bufaliniano". "Una biblioteca, quella della Fondazione, strettamente legata – ricorda ancora Iemulo – alla Biblioteca Comunale di Comiso, quasi un prolungamento della prima, che Bufalino frequentava assiduamente, dove trovava i classici dell’800 europeo, i francesi e i russi tanto amati, e di cui era divenuto il consigliere bibliografico, contribuendo ad accrescerla". Custode di libri, maestro raffinato di aforismi e studioso dei classici antichi, Bufalino aveva scelto lui stesso un motto latino da porre nella saletta studio della Fondazione e che sicuramente dovette piacergli per la sua allitterante brevità e per il gioco chiastico di parole: "Tecta lege, lecta tege" (Leggi i libri qui custoditi, custodisci i libri dopo averli letti). Lo diede a Iemulo su un foglio battuto con la macchina da scrivere, perché provvedesse a farlo stampare, e così appare, nella sala, su un cartoncino semplice e con una cornicetta altrettanto semplice, nello stile spartano di Bufalino. Coi libri ci aveva passato la vita, come disse, appena quattro mesi prima di morire, nel febbraio del 1996, ai ragazzi di un liceo classico di Catania, aggiungendo che nella sua carta da lettera aveva fatto disegnare un ex libris dove sul fondo di un mare in tempesta appare la prua di una nave che affonda e in primo piano una mano che affiora e che tiene un libro. "Quel libro rappresenta la nostra Arca di Noè" ricordò il professor Gesualdo Bufalino in quella sua lezione indimenticabile, oracolare. Ma professore, Bufalino, lo era sempre, in cattedra, nella vita quotidiana, e negli incontri letterari, anche quando la severità professorale era alleggerita dall’humour siciliano. Come quando, un anno prima di morire – così scrive in “Maschere siciliane” Gianni Bonina, testimone dell’evento – ricevette nella sua Fondazione a Comiso un gruppo di lettori tedeschi del Literaturclub, associazione letteraria animata da Wolfgang Völzke, ex insegnante di lettere innamorato della Sicilia e dei suoi scrittori. Erano arrivati in pullman da Sindelfinger vicino Stoccarda, e tra letture di versi di Bufalino, chiarimenti sulla sua poetica, dediche, autografi e foto ricordo, colsero l’occasione di chiedere allo scrittore lumi sulla metafora "asta deserta" (tradotta, molto alla buona, in tedesco, con "pennone solitario di barca"…) che Bufalino, peraltro diffidente delle traduzioni, spiegò amabilmente. Aveva il dono della pazienza e della chiarezza, così lo ricorda Annamaria Sciascia Catalano, figlia di Leonardo. "Dopo la morte di mio padre, quando i miei figli avevano qualche dubbio scolastico, in mancanza del nonno, chiamavano al telefono Bufalino, solo lui, anche se Consolo era stato più familiare in casa nostra". Al ricordo di Annamaria si aggiunge quello del figlio Fabrizio Catalano, regista, scrittore, traduttore e attento testimone della memoria del nonno. "Benché fossi bambino, di Bufalino ho un ricordo delizioso. Era il vero insegnante, e sapeva intrattenere i bambini, come dimostra lo scatto di mio padre, nel 1986, che ritrae mio nonno e accanto Bufalino che abbraccia me e mio fratello Vito. Conservo tuttora un trattato di paleontologia dei primi del 900 che mi regalò, dato che, come a tutti i bambini, mi piacevano i dinosauri". E Catalano continua: "Tutti sanno che sulla tomba di Leonardo Sciascia c’è l’epitaffio “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”. Una citazione segnata nella lettera-testamento del nonno, ma senza che fosse indicato l’autore. Ebbene, fu Bufalino, studioso di prim’ordine di letteratura francese e francofona, traduttore di Baudelaire e di Proust, a svelare, dopo aver scartato Barbey d’Aureville, che l’espressione era di Auguste Villiers de L'Isle-Adam. Se poi a Bufalino si chiedeva quale fosse il suo autore francese preferito, rispondeva Paul-Jean Toulet, un “minore” del Simbolismo". Ma torniamo alla sua biblioteca, lo spazio in cui Dino, come era familiarmente chiamato, è sempre presente, e dove è stata presentata la sua “Favola del castello senza tempo” pubblicata postuma nel ’98 e oggi ristampata da Bompiani (come i due volumi che raccolgono l’opera omnia di Bufalino), con introduzione di Nadia Terranova e illustrazioni di Lucia Scuderi. È la storia di Dino che insegue una farfalla gialla e nera con un teschio sul dorso, una farfalla di nome Atropo, che appartiene alla Notte e gli racconta del Castello Senza Tempo. Dovremo ricordarcene di questo scrittore, bisognerebbe leggerlo o rileggerlo, giovani e adulti, ritrovare nelle sue pagine, in cui tratta i temi della malattia, della morte, della vecchiaia, della memoria e dell’amore, il senso vero dell’esistenza.

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