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Quella violenza, negli occhi: quando i minori sono costretti ad assistere a scene insostenibili

Ci sono immagini marchiate a fuoco nella mente e nell’anima: ricordi di un tradimento subito, il peggiore, inflitto da chi avrebbe dovuto essere agente d’accoglienza e amore incondizionati, riferimento di fiducia e sicurezza. Tutto ciò dovrebbe infatti rappresentare un genitore per il proprio figlio, per proteggerlo da tutto; anche da se stesso, dalle conseguenze dei propri errori o fallimenti. Mentre, con frequenza esponenziale, nelle tristi circostanze di violenza domestica, i minori vengono esposti a scenari di guerre intestine, lotte impari tra vittima e carnefice, che troppo spesso si trasformano in film dell’orrore.

Su quelle sequenze il figlio non può chiudere gli occhi, come al cinema, stringendosi all’abbraccio di mamma o papà, perché i protagonisti sono loro, gli amati genitori, attori di un dramma in cui i ruoli di buono e cattivo sono chiari e confusi allo stesso tempo; mentre lui, spettatore involontario, è lasciato da solo con le sue paure a guardare le sequenze di un racconto più grande di lui.

Il “vietato ai minori” non vale tra le mura domestiche, ove si consumano atti di violenza indiretta, gravi quanto o più di quella fisica. Sono abusi di cosiddetta “violenza assistita”, definizione formulata nel 2003 dal Cismai (Coordinamento Italiano Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia) ed entrata nel codice penale nel 2013, con la legge sulla violenza di genere, come circostanza “aggravante” di un contesto familiare violento.

Solo a partire dal 2019, con la legge n. 69 (c. d. codice rosso) la violenza indiretta è stata riformulata come reato di maltrattamento nei confronti di minori, esposti a scontri brutali tra le mura domestiche.

Le conseguenze di un tale abuso sono infatti gravi e inconfutabili, perché il film dell’orrore a cui si è stati costretti ad assistere non si cancella: le ferite si trasformano in cicatrici sanguinanti che tolgono il sonno, la concentrazione, la forza di andare avanti e superare ostacoli e difficoltà; ma soprattutto compromettono la capacità di amare, di affidarsi all’altro in un rapporto intimo.

Sono “orfani d’amore” le vittime di violenza familiare, per la loro infinita solitudine di fronte alla tragedia degli affetti, in cui il male ha il volto delle persone da cui avrebbero dovuto imparare l’amore, in tutte le forme: dall’empatia con l’estraneo alla compassione per la sofferenza altrui, fino all’amore di coppia; aree del sé che la violenza assistita uccide senza pietà.

Perché al di là dell’immaginario tinto di sangue, l’abuso più grave risiede nel cambiare il corso della vita di un minore, negandogli il diritto alla felicità, prima ancora che acquisisca la maturità necessaria per diventare egli stesso artefice del proprio destino. Il soggetto violato, infatti, può a sua volta diventare un abusatore, o, al contrario, sviluppare una personalità dipendente, sottomettendosi a qualsiasi forma di prevaricazione senza reagire. Ciò accade in quanto continua a vedere nel suo aguzzino quell’adulto che lo ha vessato, ma più forte di lui; a cui tuttavia non può ribellarsi per non essere abbandonato del tutto.

Le conseguenze della violenza assistita sull’evoluzione della personalità sono direttamente correlate alla gravità e al tipo di esperienza vissuta, secondo una gradualità che va dalla circostanza altamente drammatica in cui il figlio assiste all’assassinio di un genitore, a quella meno estrema, ma fortemente destabilizzante, in cui il minore è esposto ad atti di violenza su estranei, animali domestici o oggetti che appartengono al suo mondo, dal semplice giocattolo, al dispositivo elettronico.

Nei casi di morte di un genitore per mano dell’altro – spesso il femminicidio della madre – la conseguenza più rilevante consiste nella difficoltà o impossibilità da parte del figlio di assolvere il carnefice, soprattutto quando la giovane età non gli consente di concepire la giusta distribuzione della colpa; decisione tuttavia difficile per qualsiasi figlio, anche in circostanze non apertamente violente. Parteggiare per uno dei genitori crea comunque ansia, paura di abbandono o sottrazione d’amore; ma anche forti sensi di colpa verso lo stesso autore del crimine, nonostante i fatti parlino chiaro e le circostanze mostrino un amore malato ed egoista.

Il filo che lega il figlio al proprio genitore, anche se abusante, infatti, non si spezza mai, sostenuto da una speranza di “cura” che i fatti continuamente smentiscono e che il soggetto continua a cercare, nonostante tutto, a dispetto della violenza subita.

Alla vigilia della Giornata internazionale per i Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza – che si celebra domani, come ogni anno, in tutto il mondo, ed è finalizzata a diffondere una maggiore conoscenza dei valori contenuti nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1989 e ratificata dal Governo italiano nel 1991 – , sentiamo sulla nostra pelle tutto il dramma dei minori violati, ancora una volta. Perché l’adulto, diversamente dal soggetto immaturo, ha gli strumenti per giudicare e condannare quella colpa genitoriale che non merita clemenza o perdono.

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