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Morire dal desiderio di...desiderare

«Cosa non devo fare/per togliermi di torno/la mia nemica mente:/ostilità perenne/alla felice colpa di esser quel che sono,/il mio felice niente». Inizia così, con questi versi scarni ma preziosi – quasi come una dichiarazione d’intenti – la nuova avventurosa raccolta di Patrizia Cavalli, “Vita meravigliosa” (Einaudi). Laddove avventurosa non dia l’impressione d’un termine astratto, ma al contrario lo si consideri nel segno molto più concreto della levigata asprezza della prosa, dal momento che vuole rappresentare la lotta che l’eroico gesto poetico affronta (quotidianamente) per arrivare in ritardo alla prevista catastrofe. Come quando la Cavalli, quasi avesse esaurito la scorta di peccati che, come ogni poeta, porta sempre con sé, prende costantemente nota del suo non-esistere: «Per due ore ho camminato in compagnia/per due ore ho raccontato del mio amore./Per prendere respiro mi fermavo/spostando da me al cielo l’attenzione./Grande architetta delle mie parole,/trasformavo il dolore in colpa mia».
Come quando, nel “Mio felice niente”, muore dal desiderio di… desiderare, nel vano, coraggioso tentativo di tremare di paura mentre scrive: «Vero pensiero, non astratta mente,/per cui ogni giorno provo il mio valore/che se lo perdo perdo quel sapore/così forte, sicuro, che non mente». O ancora, più avanti, nel pieno dispiegarsi di questo suo narrare lirico, costruito sulle palafitte di una lingua che domina dall’alto, una «tecnica tanto più alta quanto più dissimulata», è lei stessa, l’autrice ad ammettere, a svelare al lettore che quello che sta scrivendo è la sua stessa sentenza, ma che lei, d’altra parte, l’essenza non la perde mai di vista: «Se posso perdonare, allora devo/riuscire a perdonare anche me stessa/e smetterla di starmi a giudicare/per come sono o come dovrei essere./Qui non si tratta di consapevolezza/ma è la superbia che mi tiene stretta/in una stolta morsa che mi danna./Eccomi infatti qui dannata a chiedermi/che cosa fare per essere perfetta».
Ma siamo già alla sezione “A chi parlo quando parlo da sola”, in cui la Cavalli si scopre angosciata dal fatto che il suo linguaggio nella sua fragilità possa essere destinato solo a se stessa («Parlo a qualcuno che non sono io…»). Come se, alle volte, non le rimanesse altra scelta che quella di evitare le strade in cui potrebbe incontrare proprio se stessa. La voglia di esserci, insomma, non è passata. Almeno, non del tutto. Il canto allora di “Settembre”, terza parte di questa, canto pregiato, elegante, sobrio, diventa un modo alternativo, una maniera autunnale, per comunicare a se stessi che la storia non è finita, anzi, che è lo scrivere il motivo per continuare a scrivere. È un prendere nota di tutto, con la consapevolezza di chi del tempo farebbe volentieri a meno.
Poi, improvvisamente. la parte di lei che dorme sempre, si sveglia di soprassalto: «Ma basta insomma vieni cosa aspetti,/menti pure se vuoi, che me ne importa?/Mi basta che tu appaia alla mia porta/e con la voce scura sillabata/mi dica ancora quell’unica parola/che esiste solo quando è pronunciata». Allora al poeta non rimane che chiudere la propria anima nella custodia e uscire: «Ma prima di morire/forse potrò capire/la mia incerta e oscura condizione.//Forse per non morire/continuo a non capire/sicura in questa chiara confusione».
“Raccolta fuori dal tempo”, questa “Vita meravigliosa” di Patrizia Cavalli, in cui l’anima, sì, è vero, si scopre a vivere di espedienti, ma senza mai fare a meno della dignità. Scrivere, comporre versi, insomma, emoziona ancora il poeta, che nello specchio non smette di guardarsi con diffidenza: sono io o non sono io? E giorno dopo giorno, ritrova quasi per caso una piccola parte di sé che credeva perduta: «Io condannata dunque a essere umana/per dare nomi a quell’oscuro centro/del quale sono parte involontaria./che sia soltanto mio o anche vostro/io non lo so, ma è lì e riconosco/che in quanto mio è forse pure vostro…».

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