Chi accumula libri, accumula desideri; e chi ha molti desideri è molto giovane, anche a ottant’anni, diceva Ugo Ojetti, brillante scrittore toscano, toccando l’argomento, molto controverso, del collezionare libri, un tema di discussione già con Socrate, che si chiedeva: «A cosa serve avere tanti libri e librerie, se poi non basterebbe una vita intera per leggere solo i titoli?», mentre un più giudizioso Seneca, secoli più avanti, consigliava: «Se non è possibile leggere tutti i libri che potresti avere basta che tu abbia i libri che puoi leggere», e il pragmatico Cicerone suggeriva: «Se accanto alla biblioteca avrai l’orto, nulla ti manca». Dunque libri, libri libri per i quali dopo l’acquisto e la lettura il destino è solitamente il buio e l’oblio, impolverati e malinconici nella solitudine “tombale” di uno scaffale. Tuttavia, ci sono libri sorprendentemente immortali, che sopravvivono anche ai loro stessi autori e di ciò si faceva un cruccio Gustave Flaubert: «Io sto morendo, ma quella p... di Emma Bovary vivrà in eterno».
Va detto che la fortuna dei libri la fanno i lettori, le diverse tipologie di lettori, accumulatori compulsivi, collezionisti incalliti, appassionati irrefrenabili o maniacali che sentono il bisogno di “possedere” il libro appena pubblicato. I “maniacali” sono una categoria particolare: lettori-possessori di libri. In Giappone hanno dato vita a un fenomeno alquanto bizzarro e diffuso col nome Tsundoku, unione dei lemmi tsunde, cioè “impilare cose” e oku, “lasciare lì, per qualche tempo”.
Ci sono, nella storia, cacciatori di volumi per i quali “dipendenza” e “caccia” diventano un destino. È questo il caso dello scrittore scozzese Andrew Lang (1844 - 1912), apprezzato studioso di Omero e dei classici, storico, poeta, giornalista e collezionista di fiabe, considerato il cacciatore di libri più famoso di tutti i tempi. Autore semi-inabissato, Lang, pur avendo avuto frequentazioni con scrittori che in Inghilterra consideravano suoi pari, come Henry James, Oscar Wilde, Aubrey Beardsley, torna alla ribalta, ad un secolo dalla morte, con un libro apparentemente minore, pubblicato in Inghilterra nel 1897, che segnò il suo irrefrenabile ardore per la bibliofilia. “Books and Bookmen” è il titolo originario di questo delizioso volume che tratta dell’amore, sconfinato, di Lang per i libri e racconta della sua idea, ossessiva, di dar loro la caccia. Il vecchio pamphlet, è per la prima volta adesso pubblicato in Italia, col titolo Uomini e libri (Elliot, pagine 185, euro 16,50), a cura di Massimo Ferraris che lo ha tradotto e ne scritto la bellissima prefazione. Il libro è considerato il «canto del cigno di un cacciatore di libri» come scrisse d’altronde lo stesso Lang, nella presentazione originale, ma in realtà è molto di più poiché l’autore passa in rassegna temi come folclore, mitologia, antropologia, religione. Uomini e libri è scritto, va sottolineato, da una mente onnivora dalla curiosità senza limiti, da uno scrittore che raccolse storie di bambini da tutto il mondo: è un libro davvero piacevole non solo per gli amanti dei libri. Lang dispensava consigli ai suoi lettori, particolarmente alle “signore che amano i libri”, titolo di un capitolo del volume. «Madame, non è una cosa alla moda l’omaggio del bibliofilo, che porgo», scriveva alla Viscontessa Wolseley raccomandandole i suoi saggi: «Sul vostro scaffale sicuri giacciono… basta, per me, che siano lì».
Stiano lì!, diceva Lang, ma è questo il problema, per chi ama i libri e li colleziona. Come farli stare lì? Un ordine perfetto, per conservarli, è impossibile, ma senza ordine non si vive, ci spiega Roberto Calasso nel dottissimo Come ordinare una biblioteca (Adelphi, pagine 127, euro 14) che è la decima o l’undicesima tappa del viaggio dello scrittore nella letteratura, cominciato nel 1983, con la “Rovina di Kasch” e proseguito con “Il libro di tutti i libri”. Per Calasso il miglior ordine per tenere i libri non può che essere plurale. Chi prova a dare un ordine ai propri libri deve al tempo stesso riconoscere e modificare una buona parte del suo paesaggio mentale. Impresa delicata, piena di sorprese e di scoperte, priva di soluzione. Molti l'hanno sperimentata, dal dotto seicentesco Gabriel Naudé ad Aby Warburg. Nel libro di Calasso se ne raccontano vari episodi, mescolati a frammenti d’una autobiografia involontaria a cui fanno seguito un profilo del momento in cui certe riviste fra 1920 e 1940 operavano come “impollinatrici della letteratura”, insieme a una cronaca dell'emblematica nascita della recensione, quando Madame de Sablé si trovò nella improba situazione di dar conto, pubblicamente, delle Massime del suo caro amico La Rochefoucauld.
Finché il tema del dare ordine riappare questa volta applicato alle librerie di oggi, per le quali è una questione vitale, che si pone ogni giorno. Libri, in fondo, per i quali è una questione di polvere, scrive Roberto Montroni in L’uomo che sussurrava ai lettori (Longanesi, pagine 208, euro 16). Montroni nella vita li ha spolverati i libri, come libraio, poi li ha letti e, infine, scritti. Ha cominciato come fattorino e poi è diventato manager di case editrici importanti, tra cui Feltrinelli e Zanichelli. Sussurra ai lettori Montroni, ma la sua è una dichiarazione d’amore, accompagnata dalla esortazione alle buone pratiche, con riflessioni e proposte per il tanto che resta da fare, per i libri.
Libri che a volte leggiamo senza dare importanza a una figura centrale dell’editoria, il traduttore o la traduttrice. La traduzione investe una questione vitale: la comparazione e il confronto tra lingue e culture, cioè il cuore antico delle civiltà. «È un lavoro che va a fondo della conoscenza», scrive Renata Colorni nel suo Il mestiere dell’ombra (Henry Beyle, pp. 104, euro 35) libro a cui ha affidato il racconto del suo lavoro di traduttrice di Freud, Mann, Roth, Canetti e di altri grandi scrittori. È il racconto confidenziale della sua straordinaria esperienza di letterata, convinta che la buona editoria si fa con la revisione del lavoro altrui, con quel “fare le pulci” un poco odioso, ai testi degli altri. Chi traduce, dice Colorno, è «artista camaleontico e libertino» obbligato a dimenticarsi di sé, disposto a restare invisibile, ma consapevole, in senso musicale, che il suo lavoro è come l’armonia, senza la quale la musica sarebbe solo rumore.
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