Sabato 23 Novembre 2024

Il ricordo del messinese Carlo Quartucci: che teatro, nomade e vivo!

La magistrale non-lezione di Carlo Quartucci a Messina

C’è una frase di Francis Picabia (pittore e scrittore franco-cubano) che Carlo Quartucci mise a epigrafe del suo secondo “Bollettino di Camion”: «Bisogna essere nomadi, bisogna attraversare le idee così come si attraversa un paese o una città». E a me viene da aggiungere quell’altra dell’antropologo e scrittore norvegese Thor Heyerdahl: «Di confini non ne ho mai visto uno. Ma ho sentito che esistono nella mente di alcune persone». Ecco, il libro “Stravedere la scena. Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959 – 1979” di Donatella Orecchia, storica del teatro e docente universitaria, racconta del grande teatrante messinese scomparso il 31 dicembre di un anno fa come una storia in cui non esistono confini ma solo un nobile nomadismo di idee che non accettano forme, se non per circostanze-tappe, costruzioni e distruzioni di una ricerca che non ha mai fine fra evoluzioni e involuzioni della società in cui stiamo (mai immobili). L’autrice segue la poetica di Quartucci, della sua arte ma anche della sua anima (nel senso più vasto del termine), del suo essere compreso e incompreso perché in grado di guardare sempre oltre il momento, di partire verso nuovi incerti traguardi quando gli altri lo avevano raggiunto. E così il libro, pur essendo un saggio di grande valore, diventa insieme narrazione, favolosa e reale, storia di vita e di emozioni sempre pronte a scavalcare le teorie e a rimettere in discussione i risultati. Un nomadismo ideale senza approdo che non sia quello di una nuova partenza. Donatella Orecchia ha fatto un lavoro raro perché non ha piegato – come spesso accade – la “storia” da raccontare ai paletti scientifici della ricerca accademica, ma ha saputo superare tutti gli steccati possibili per far qualcosa che, pur nel rispetto di alcune regole fondamentali, è vera esistenza teatrale e umana. Per Quartucci c’è sempre un oltre, come ribadì l’ultima volta (2018) che venne nella sua Messina (appunto “stravedere la scena”), e questo libro lo riporta in modo sistematico al centro della storia teatrale italiana del secondo ‘900, cogliendo tutte le novità del suo percorso, attuate con furore dirompente, anche a costo di fallimenti e delusioni. Basti pensare all’abbattimento concreto della quarta parete, oggi diventato solo un banale modulo di rappresentazione. Le testimonianze dello stesso Quartucci e di attori che hanno lavorato con lui rendono palpitanti le pagine sugli spettacoli che a poco a poco portarono il regista dalla collaborazione con gli Stabili (di Genova e di Torino) e dalla partecipazione alle Biennali di Venezia a viaggiare fuori da ogni regola codificata con il suo “Camion”, esperienza radicale di teatro viaggiante, che lui stesso riallaccia all’esperienza della compagnia di “scavalcamontagne” dei genitori che si spostavano tra Sicilia e Calabria su vagoni merci e spesso pagati con polli e frutta. Il cosiddetto punto di rottura in genere è considerato “Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap e la Grande Mam alle prese con la società contemporanea”, con testo (continuamente modificato) di Giuliano Scabia, in scena alla Biennale nel settembre del 1965. «Volevamo unificare i due spazi, palcoscenico e platea, immergerci nel luogo dello spettatore e immergere lo spettatore nella nostra azione; adoperare dei materiali diversi; scomporre, frantumare, dare una visione poliedrica dell’azione teatrale», scriveva Quartucci. Non fu uno spettacolo perfettamente riuscito ma fu un evento spartiacque che divise la critica. Giustamente però Orecchia retrocede l’inizio di questa fase – che segue i Beckett di “Aspettando Godot” e “Finale di partita” – a “Cartoteca” (maggio 1965, a Genova), «primo atto chiaro da parte di Quartucci di eliminazione della quarta parete», laddove il regista dichiarava di voler «provocare un fatto di cultura in una comunità». Uno stile che prendeva idealmente origine dal dripping (sgocciolando) del pittore americano Jackson Pollock. La rottura con il teatro “ufficiale” divenne definitiva con “Il lavoro teatrale”, con testo di Roberto Lerici (per anni a fianco di Quartucci), in scena alla Biennale nel 1969, che registrò anche una misteriosa interruzione della prima, mai chiarita. Da lì un lungo lavoro di Quartucci in radio e tv con “Don Chisciotte” e “Moby Dick” (in questi giorni trasmesso su Rai5). Un’appendice, scritta da Rodolfo Sacchettini, racconta gli incredibili esperimenti sonori nella sede Rai di Torino, la collaborazione “armata” tra il regista e Primo Levi, e Carmelo Bene che recita “Tamerlano” diretto da Quartucci e che scopre la phoné – così mi ha sempre detto Carlo – grazie al suo particolarissimo uso dei nastri magnetici. Poi dal 1971 l’avventura del teatro errante di “Camion”, un’epica sociale e politica nelle piazze di villaggi e periferie, con l’arrivo determinante di Carla Tatò, compagna di vita e di arte, e l’idea ormai chiara del laboratorio permanente. Anche su questo le pagine del libro formano un racconto appassionante fino al film “Borgata Camion” e alla visione particolarissima della Nora Helmer di “Casa di bambola” di Ibsen. Dopo “Camion” seguiranno le avventure del teatro diffuso di Genazzano e della “Zattera di Babele” di Erice, oggetto probabilmente di un altro saggio. Il libro sottolinea come in quella assenza di confini ci sia costante e fondamentale il coinvolgimento di tutte le arti possibili: musica, pittura, scultura, architettura. La collaborazione con Jannis Kounellis e Giulio Paolini, esponenti illustri dell’Arte povera, e con il famoso critico d’arte Germano Celant ha ampliato il concetto di scrittura scenica. Le scenografie, gli oggetti, il suono sono protagonisti come gli attori e come il regista-servo di scena, che opera a vista e fa anche il disturbatore, per creare nuove situazioni impreviste agli attori e al pubblico: nessuno si può mai adagiare, perché il viaggio continua sempre e mai uguale.

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