«La Sicilia di Sciascia fu il mondo. E fu, anche, teatro della memoria e laboratorio di moralità e di stile». Così scrive Antonio Di Grado, fine italianista, saggista e direttore letterario della Fondazione Leonardo Sciascia (così come volle lo scrittore), nel volume “In Sicilia con Leonardo Sciascia”, scritto con la giovane studiosa Barbara Distefano, in uscita domani per Giulio Perrone Editore. Un libro colto e agile diviso in due parti: nella prima, intitolata “Dall’isola al mondo (e ritorno)”, Di Grado racconta l’intellettuale di respiro internazionale, «aperto al mondo con un’inclinazione mitteleuropea, con una vocazione decisamente transnazionale e cosmopolita, quella dei grandi intellettuali siciliani che dall’alto del loro osservatorio remoto si mettevano direttamente in comunicazione con le grandi capitali dell’anima». Nella seconda, intitolata “Dai luoghi comuni ai luoghi di Sciascia”, la Distefano racconta il maestro, il narratore di storie di emigrazione, il cercatore di luoghi che “parlassero”, tornando con le sue letture e fisicamente nei luoghi sciasciani.
Un contributo illuminante tra le celebrazioni tributate per il centenario della nascita di Sciascia, che, come ricorda il professor Di Grado, sono «preziosi appuntamenti con i maestri, preziosi per noi che continuiamo a imparare. Perciò bisognerebbe ricordare più spesso la Fondazione voluta da Sciascia, che può proporsi come un modesto ma utile “teatro della memoria”».
Su Sciascia e di Sciascia circolano, come forse avviene per i grandi, molti luoghi comuni. Da quali stereotipi, appunto, bisogna guardarsi?
Di Grado: «Il principale luogo comune che ritorna in celebrazioni come queste è quello di Sciascia scrittore civile. Certo, Sciascia è anche scrittore civile, ma la sua scrittura è molto più complessa e profonda. Sciascia raggiunge vette metafisiche, non solo in testi come “Il cavaliere e la morte”, in cui si confronta con temi come la giustizia e la ragione, la memoria e la morte, ma sin dall’inizio, in quei gialli “di mafia” in cui mirava a un’analisi che scendesse nel profondo della realtà. Esempio ne è la scena tanto discussa del “Giorno della civetta” in cui si trovano a confronto due “uomini”, il capitano Bellodi e don Mariano».
Distefano: «Sciascia ha fatto la stessa fine che, a suo dire, era toccata al Don Chisciotte: intere generazioni hanno respirato il suo nome, ritrovandolo sui giornali, in televisione o a scuola, ma in molti casi ciò ha allontanato dalla voglia di capire meglio chi fosse questo scrittore e cosa avesse scritto. Io ho cominciato con “Sciascia maestro di scuola”, un mio libro uscito un anno fa per Carocci, che scava dentro il luogo comune del “maestro svogliato”. Gli stereotipi sono tanti, ma forse ce n’è uno che li riassume tutti: il pessimismo disfattista».
Qual è l’intento di questo libro?
Di Grado: «È esplorare i luoghi di Sciascia, e tengo a precisare che in questa geografia piuttosto immaginaria Sciascia è tra i grandi autori siciliani citati, radicati nell’isola, ma pronti a divincolarsene trasfigurandola in quella geografia fantastica che grazie alle loro vertiginose invenzioni ha fatto della Sicilia un laboratorio di congetture critiche e laiche moralità, un osservatorio polemico delle imposture del “contesto”».
Distefano: «Il mio è un viaggio dai luoghi comuni ai luoghi di Sciascia. Sono partita da alcuni dei pregiudizi sui siciliani che negli ultimi anni di vita all’estero ho avuto modo di verificare in prima persona, e ho cercato risposte rileggendo i testi dello scrittore. I luoghi sciasciani, quindi, sono solo un pretesto, ma è stato bello ritornarci fisicamente e vedere cosa sono diventati».
E quale Sicilia viene fuori dalle vostre pagine?
Di Grado: «Una Sicilia che, come Sciascia, non posso fare a meno di amare e di odiare. Emblematica la domanda del viceré Caracciolo nell’atto d’abbandonare l’isola sconfitto, lui e le sue riforme illuminate: “Come si può essere siciliani?”. Ovvero: come si può sopportare il peso di tante contraddizioni?».
Distefano: «Una Sicilia certamente lontana dalla “pistola” della copertina, la Sicilia del giallo e degli omicidi di mafia, che di sicuro attira molti lettori... Anche se è una pistola scarica che noi cerchiamo di disinnescare».
Una cosa è, tra le altre, comune nelle vostre riflessioni: ricordate che Sciascia, tranne rarissimi casi, non parlava mai di mare e non amava il mare.
Di Grado: «Nel saggio di apertura di “La corda pazza”, intitolato “Sicilia e sicilitudine” Sciascia ricorda come il mare sia stato sempre fonte di paura, e non solo per la fatica, per i siciliani, forse perché dal mare erano giunti gli invasori dell’isola. Al contrario di altre letterature, come ad esempio, quella inglese, la letteratura siciliana non è di mare».
Distefano: «L’antipatia di Sciascia per il mare è anche una questione politica: una presa di distanza da quanti inneggiano alla bellezza, all’unicità e alle risorse della Sicilia, ma censurano la discussione dei problemi che affliggono l’isola, accusando piuttosto di pessimismo i conterranei in disaccordo o adducendo l’alibi dell’usurpazione».
Quello che offrite nel vostro scritto è una sorta di viaggio, un baedeker per un viaggio nell’isola dice lei, professore, e un itinerario per lettori stanchi del turismo di massa, dice lei, dottoressa.
Di Grado: «Un viaggio non per turisti, ma per viaggiatori che hanno curiosità intellettuali. Un libro, certamente, non è una guida, ma lo è se intende rispondere a chi vuole esplorare l’isola di Sciascia».
Distefano: «Non poteva essere altro, perché Sciascia lo disse chiaramente che non voleva diventare un’attrazione turistica. Ho provato ad accogliere una delle lezioni fondamentali dello scrittore: chi cerca la verità non può non amare la semplicità, e non c’è lotta se non si fa divulgazione».
Professor Di Grado, un suo ricordo di Sciascia.
«Tra tanti, mi piace ricordare quando nell’89, Sciascia era ai suoi ultimi giorni, il teatro Stabile di Catania volle mettere in scena tre atti unici, uno di Bufalino, uno di Consolo e uno di Sciascia. Mi chiese di occuparmene e mi diede un testo poco conosciuto, e divertente, “Arrivano i nostri”, in cui si racconta dello scherzo d’un giovane ai vecchi notabili conservatori di un circolo siciliano, con l’invenzione di un fantomatico giornaleradio in cui si diceva che i comunisti avevano preso il potere. All’inizio la cosa provocò sgomento, poi però si scelse il trasformismo. L’atto unico, che firmammo insieme, ebbe molto successo e quando glielo raccontai gli strappai un sorriso, forse uno degli ultimi».
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