Lunedì 23 Dicembre 2024

A colloquio con Alberto Cassani sul suo singolare romanzo: che realismo la fantapolitica!

Una giostra malinconica, benché movimentata, “tragedie di duci e paladini”, come recita un verso tratto dal Faust di Goethe e che ha ispirato il titolo di “Una giostra di duci e paladini” (Baldini&Castoldi), romanzo appena uscito di Alberto Cassani, che è nato e vive a Ravenna, dove è stato assessore dal 1997 al 2011. La cifra della sua scrittura, tra visionario e realistico (ma con punte di grottesco e di comico), già tracciata in “L’uomo di Mosca” (Baldini&Castoldi 2018), il suo primo romanzo, è quella necessaria per raccontare una storia dolceamara di amici, di varie età ed esperienze di vita, di carattere diverso ma uniti dall’amore per il teatro, che si scontrano con il Potere, con il Capo, il mediocre ma pericoloso homo insipiens dei nostri giorni come di altre epoche storiche. Tutto avviene quando l’amico Victor un giorno sparisce in circostanze misteriose, ed è per cercare Victor che gli amici, lontani ma sempre in contatto, si ritrovano a Parigi. Così, capitanati dall’ottantaquattrenne Amleto Coen, una vita ormai umbratile in una casa di riposo, ma con un passato di uomo di cultura, incisivo nella politica della sua città e fermo nelle sue idee comuniste, ritrovano proprio nell’amicizia le loro piccole isole di libertà, pur districandosi in avventure spesso rocambolesche, tra servizi segreti, spie e memorie di un esaltante passato (almeno nel ricordo). Per resistere, nella stagione post-pandemia, in quel tempo che riflette lo spirito degli uomini, spesso così meschino, per citare ancora Goethe. Un romanzo fra “fantapolitica”, vita di provincia, intrighi e storie di amicizia. Lei come lo definirebbe? «Credo di poterlo definire un romanzo corale, con una pluralità di personaggi, con diverse ambientazioni e con più piani narrativi che attraversano i generi. Perché in effetti il plot narrativo principale segue la falsariga del giallo, ma incrocia come sottotracce sia il memoir che la cronaca politica (o fantapolitica)». E l’idea prima dal quale è nato? «Volevo raccontare la storia di un gruppo di amici che la vita ha allontanato e che rinsaldano il loro rapporto di fronte al pericolo. Poi volevo costruire un intrigo in cui la vita di provincia incontrasse il Mondo e una Storia più grande provocando una sorta di corto circuito». E infatti, il suo è un racconto di amicizia. E, a proposito di amici, Amleto Coen spicca su tutti come pater. Si è ispirato a qualcuno in particolare? «Non c’è una identificazione precisa, anche se nella vita di ognuno di noi c’è sempre almeno una figura con quelle caratteristiche. Ciò che mi interessava era comunque la presenza di un personaggio che, avendo vissuto diverse età, fosse in grado di offrire un contributo di memoria, una visione prospettica dell’esistenza umana ma anche della Storia, e che raccontando la propria esperienza offrisse ai lettori la possibilità di un confronto critico tra epoche e generazioni». Fino a che punto il suo romanzo è visionario e fino a quale punto è realistico? «Generalmente la realtà empirica è la cornice che consente il gioco di specchi della finzione narrativa. Alla base c’è sempre un’esperienza vissuta che il racconto trasfigura rendendola in qualche modo universale. È il caso, nel romanzo, dell’avventura della Città del Teatro che vent’anni prima aveva unito il gruppo di amici. A volte la finzione diventa effettivamente visionaria, come quando ci si spinge a immaginare un futuro politico post-pandemia. Eppure anche in quella visione c’è una base di realismo che la rende drammaticamente verosimile… ». Lei si è sempre occupato di politica e di cultura, ne ha conosciuto da vicino gli intrecci e i compromessi. La cultura è asservita alla politica? Oppure? «La questione è complessa e ogni risposta rischia di generalizzare e semplificare troppo. In ogni caso, mia impressione è che oggi più che mai la politica, che è sempre più gestione del Potere, sia quasi esclusivamente interessata alla comunicazione e assai poco alla cultura. D’altro canto la cultura, i cui contorni andrebbero comunque definiti o ridefiniti, rischia costantemente la marginalità: se in altri contesti storici, abbracciata alla politica, rischiava l’ideologismo e la subalternità, oggi, svincolata dalla politica (non dal Potere), rischia di essere asservita alle leggi del consumo o di neutralizzarsi nell’autoreferenzialità. Il romanzo comunque mantiene aperta la porta della speranza…». A questo proposito, chi rappresenta il Capo? «Il Capo rappresenta il Potere. Rappresenta la politica senza mediazioni, quella che smette di farsi carico della complessità, che liscia il pelo agli umori più diffusi e rivolge contro i capri espiatori l’aggressività della gente. Il Capo rappresenta un prototipo diffuso nel nostro tempo, che assomiglia ad altri che hanno dominato in altre epoche storiche dopo essere emersi come risolutori nelle fasi di trapasso e di crisi». Si respira internazionalità nel racconto con tanti luoghi, da Parigi a Bruxelles al Messico a Bangkok. Luoghi da lei conosciuti oppure dell’anima, come sembra essere soprattutto Parigi? «Parigi è una città alla quale, come alcuni dei personaggi del romanzo e come forse mezzo mondo, mi sento particolarmente legato. Per gli sviluppi narrativi del romanzo avevo bisogno di una metropoli non troppo lontana dall’Italia e della quale avessi anche una certa conoscenza topografica: Parigi calzava a meraviglia. Gli altri luoghi, dal Messico alla Thailandia, evocavano più che altro un altrove esotico ed era sufficiente attingere all’immaginario turistico (anche se poi, personalmente, mi è capitato di passare sia da Playa del Carmen che da Bangkok).». E il teatro che parte ha? «Quello del teatro è uno dei leitmotiv del romanzo. Il teatro è la passione del gruppo di amici, è il luogo in cui avviene la resa dei conti finale, è l’allegoria del rapporto tra realtà e finzione. Ma è anche uno dei simboli della resistenza, a tratti disperata e anacronistica, della cultura».

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