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La parola al professor Alessandro Barbero: Dante, un poeta visto da uno storico

Un prezioso volume ricostruisce tutta la vita del più grande, oltre i luoghi comuni e le leggende, dentro le contraddizioni del suo tempo

Ritratto allegorico di Dante. Del Bronzino, 1532-1533, collezione privata

Quando al professore Alessandro Barbero, medievista e ordinario di Storia medievale all’Università orientale del Piemonte, autore di numerosi saggi e romanzi, e ora di “Dante” (Laterza), chiediamo qual è oggi il Dante di cui far innamorare i giovani, gli studenti, non ha dubbi: «Sono proprio il genio poetico e in subordine l'importanza linguistica i motivi per cui continuiamo a leggere Dante. Dante non è un maestro di morale a cui inchinarsi, né un genio italico di cui inorgoglirsi scioccamente: è un grandissimo poeta capace di far venire i brividi a chi lo legge, ed è questa l'unica cosa che conta».

Ma il “suo” Dante è «il Dante dello storico, perciò questo libro è diverso da tutti gli altri perché è il tentativo di ricostruire la vita di un uomo del Medioevo, straordinariamente ben documentata rispetto alla vita di un qualunque altro suo contemporaneo, prescindendo dal fatto che l’uomo in questione era un genio e ha scritto un capolavoro immortale».

Dante è un uomo che vive nella complessità medievale e dunque non può essere esente da contraddizioni perché – dice il professore – «è la vita che comporta contraddizioni e costringe a compromessi, e ancora di più per chi fa politica, e non solo nel Medioevo».

Professor Barbero, lei sgombra il campo da alcuni luoghi comuni, tra i quali, ad esempio, il fatto che Dante a Firenze non avesse molti mezzi economici. Insomma, povero e nobile, oppure benestante e di famiglia, diremmo oggi, medio-borghese?
«Le categorie di oggi non ci aiutano a comprendere quel mondo. Dante appartiene a una famiglia del popolo, cioè una famiglia che non è molto antica e non vanta cavalieri fra i suoi membri; la discendenza da un trisavolo cavaliere è forse un'invenzione, forse una memoria familiare difficile da verificare, ma ha poco a che fare con l'effettiva situazione degli Alighieri nel Duecento. Plebeo, dunque, anche se con pretese o illusioni aristocratiche; ma di famiglia agiata, dunque in grado di vivere di rendita e di farsi strada negli studi come in politica».

Quali sono le fonti più autorevoli sulle quali lei si è basato per ricostruire gli aspetti pratici della vita di Dante?
«Tutte le fonti possibili. Le testimonianze dello stesso Dante, che ovviamente non possono essere prese per oro colato, ma vanno analizzate nel contesto della creazione letteraria (la Vita nuova) e della difesa della propria immagine (la Commedia). La testimonianza dei biografi antichi, primi fra tutti Boccaccio e Leonardo Bruni, e dei primi commentatori della Commedia, fra cui gli stessi figli di Dante. Ma per tutto ciò che riguarda la famiglia, il contesto sociale, la posizione economica e l'attività politica a Firenze sono decisive le fonti d'archivio, i tanti documenti contenenti riferimenti a Dante o ai suoi familiari che gli eruditi hanno scovato negli archivi con un lavoro secolare e che oggi sono comodamente riuniti e commentati nel Codice Diplomatico Dantesco, uno strumento di lavoro indispensabile».

Eppure le fonti, i documenti, al netto di quelle apocrife o ritenute tali, danno luogo a letture contraddittorie tra i vari dantisti o biografi di Dante.
«Qualche apparente contraddizione può essere dovuta alla scarsa conoscenza che i dantisti hanno del funzionamento di quella società; questo vale per tutte le discussioni sulla nobiltà di Dante, sulla pretesa povertà della sua famiglia, sulla sua partecipazione alla battaglia di Campaldino. Ma molte letture contrastanti fra loro sono dovute ai larghi vuoti che si aprono nelle nostre conoscenze dopo che Dante è costretto a lasciare Firenze. Negli anni fra il 1302 e il 1321 noi spesso non sappiamo dove fosse Dante, così come non abbiamo dati certi sulla cronologia delle sue opere: e qui le interpretazioni degli studiosi possono divergere. Quando si fa un lavoro scientifico è indispensabile discutere la letteratura esistente, e discuterla vuol dire proprio evidenziare gli aspetti su cui esiste un consenso, e quelli su cui invece ci si divide».

Lei elimina tanti orpelli dalla agiografia dantesca, ma nelle ultime battute del libro chiama Dante profeta. E da storico come lo giustifica?
«Oggi i dantisti si vanno sempre più convincendo che Dante deve essersi sentito una specie di profeta. Non sappiamo se abbia addirittura sperimentato sogni o visioni da cui potrebbe essere nata l'idea del viaggio nell'oltretomba, magari in seguito a qualche patologia, come ipotizzava il compianto Marco Santagata. Ma certamente era molto interessato ai libri profetici dell'Antico Testamento, li cita spesso e in contesti molto impegnativi, e non esita a lasciar intravvedere dei paralleli fra quei profeti e lui stesso. Perciò “Dante profeta” è uno dei grandi temi della discussione attuale su Dante, ed è a questo che volevo alludere nella battuta finale del libro».

Dante cercò la protezione di signori come i Malaspina, in buoni rapporti con la Firenze dei Neri, che avrebbero potuto aiutarlo a ottenere il perdono, e anzi si rivolge ai Neri nella canzone “Tre donne intorno al cor mi son venute”. Un comportamento contrario a chi rifiuterà di tornare a Firenze con l’amnistia del 1315.
«Ma le cose cambiano, nella nostra vita la contingenza del momento è importantissima, ed è l'unica cosa che conta in politica. Dante durante l'esilio ha combattuto contro il governo fiorentino con la spada in pugno, sperando di tornare in città con la forza e addirittura in compagnia dei ghibellini, poi ha sperato di riuscire a farsi perdonare e riaccogliere, e poi, molti anni dopo, ha rifiutato un'offerta che non era diretta a lui personalmente, non era una riabilitazione, e di cui non si fidava affatto».

In un certo senso il “mistero” Dante continua, tanto è vero che alimenta il fantasy e il romanzo, ultimo dei quali quello postumo del professore Santagata sugli ultimi giorni di Dante, attorno a una misteriosa statuetta e a una questione di negromanzia, di cui lei stesso parla nel suo libro.
«Ah, quello è un vero romanzo già nei verbali degli interrogatori di Avignone, quella gente aveva una fantasia straordinaria: che peccato che non sapremo mai se in quel coinvolgimento di Dante nel tentativo di avvelenare il papa c'era qualcosa di vero o se era tutta una montatura...».

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