Il dì di Dante perché l'Italia ricordi il suo Sommo Poeta: a colloquio con i creatori della giornata
Insieme hanno coniato, proposto e promosso la bella espressione “Dantedì” per oggi 25 marzo, data stabilita da biografi e critici come giornata mondiale per Dante, scelta per ricordare l’inizio del viaggio dell’immenso Poeta nei regni dell’aldilà, un percorso di salvezza per ritrovarsi dopo la perdizione, e così «riveder le stelle». Sono Francesco Sabatini, illustre linguista, accademico e presidente onorario della Crusca, popolare ospite fisso della rubrica “Pronto Soccorso linguistico” della trasmissione Rai UnoMattina, e Paolo Di Stefano, studi filologici, giornalista e scrittore (tra gli altri, per i quali ha avuto numerosi premi, il suo ultimo bel romanzo, “Noi”, pubblicato da Bompiani). Professor Sabatini, dottor Di Stefano, avete coniato l’ espressione Dantedì. Come è nato tutto? Sabatini: «È stata una scintilla, scoccata nel 2019, cui è seguita la fiammata, per usare parole di Dante. Per il 25 marzo ci voleva un’espressione, chiara, vivace, evitando un “Danteday”, una minaccia terribile che rischiava di apparire all’orizzonte. Parlando con Paolo Di Stefano – l’iniziativa era nata dal Corriere, appunto – decidemmo per “Dantedì”, perché “dì” è parola italiana, benché un po’ invecchiata ma da risuscitare, presente nei nostri giorni della settimana (lunedì, martedì e così via, nati sulle forme latine lunae dies, martis dies, ecc) o in altre espressioni come oggidì, buondì. Una parola nuova, italiana, che presto ha iniziato a viaggiare per il nostro Paese e per il mondo». Di Stefano: «A suggerirmi l’idea di una giornata dantesca nel 2017 è stato il Bloomsday, la festa che si tiene ogni 16 giugno in onore di James Joyce e del suo capolavoro, trattandosi della data in cui si svolge l’Ulisse, ovvero la passeggiata del protagonista Leopold Bloom per le vie di Dublino. È una commemorazione popolare anche molto giocosa che coinvolge non solo l’Irlanda ma gli Stati Uniti e molti Paesi europei, Italia compresa. A Trieste, per esempio, dove Joyce ha vissuto, il 16 giugno si svolgono conferenze, letture, incontri, spettacoli, teatri itineranti nelle librerie, nelle biblioteche, nei locali pubblici. Mi pareva ingiusto e paradossale che l’Italia si ricordasse di Joyce e non avesse mai trovato il modo di fissare una giornata per il maggior Poeta italiano e forse europeo. Ne ho scritto più volte sul Corriere della Sera, sollecitando l’istituzione di una Giornata dantesca, tra i due anniversari: quello del 2015 (750 anni dalla nascita) e quello del 2021. Francesco Sabatini è stato il primo a cogliere l’idea e a rilanciarla con la sua autorevolezza e il suo entusiasmo, insieme abbiamo trovato il nome “Dantedì” e l’iniziativa ha preso corpo istituzionale nel gennaio 2020». Tra le parole coniate da Dante, i cosiddetti verbi parasintetici, quali ricordare? Sabatini: «A Dante piaceva coniare verbi ricavati dai nomi, dai pronomi, dagli avverbi e perfino dai numerali, per esprimere concetti profondi e arditi. Ecco immillarsi, insemprarsi, inluiarsi, incielarsi, indiarsi, inventrarsi, inzaffirarsi, inurbarsi, infuturarsi, indovarsi, inventrarsi, innoltrarsi. Alcuni tuttora usati, come “inurbarsi” o “indovarsi”, un termine medico questo, per dire di una scheggia, di una cisti che “s’indova” in qualche parte del corpo. “Innoltrarsi”, invece, usato nel linguaggio burocratico, è un termine che sembra poco poetico, ma Dante lo ha usato nel canto XXI del Paradiso quando alla sua domanda perché nel cielo di Saturno i beati non innalzano melodie, San Pier Damiano gli fa capire che neppure in Cielo la mente umana può inoltrarsi “nell’abisso de l’etterno”. E Dante, di fronte a questa risposta rimane in silenzio, e lascia la questione». Di Stefano: «Tempo fa la “Lettura” pubblicò un grafico con le parole più usate nella Commedia. Rimasi colpito nel constatare che il termine più ricorrente rispetto a tutti era “occhi” e poco distante c’era “vidi” preceduto dal verbo “dissi”, molto prevedibile, e da “cielo”, anche questo diversamente prevedibile. Probabilmente sono cose che i dantisti hanno sempre saputo, ma questo dimostra che davvero il poema è un’opera visionaria in senso letterale oltre che metaforico. Dunque, se dovessi scegliere il verbo parasintetico più dantesco che si possa immaginare, direi: «adocchiare», bellissimo anche perché ha più sfumature di significato. Si può «adocchiare» un passante all’Inferno nel senso di gettargli un’occhiata distratta, si può «adocchiare» qualcuno nel senso di riconoscerlo, si può «adocchiare» il Cielo, cioè fissare lo sguardo nell’aldilà». Mandel’štam ha detto che non è possibile leggere i Canti di Dante senza rivolgerli all’oggi; essi sono proiettili scagliati per captare il futuro. Perché Dante è attuale? Sabatini: «Tutti i grandi classici hanno toccato temi eterni, e tra questi il perdersi e il ritrovarsi, un’esperienza che tocca tutti. E poi Dante era italiano e, ancora, ha vestito la poesia di scenografia. E, infine, era uno “spiritaccio”, combattivo, scatenato, cosa che ha segnato tutta la sua vita, psicologica ed esistenziale, da quando combatté a cavallo nella battaglia di Campaldino a quando, lui solo, si oppose con un “nichil fiat” di fronte alla richiesta del Comune di Firenze di finanziare truppe per il papa. Ebbene, tutto ciò, le lotte e le sconfitte, le conoscenze nei più diversi campi, per uno come lui portato a scavare dentro di sé, si traduce in una costante ricerca di espressione. Anche Petrarca era in continua ricerca dell’espressione, ma la grandezza e la modernità di Dante consistono nel fatto che lui riflette proprio sul linguaggio come facoltà umana da chiarire, sia nella teoria che nell’applicazione, in termini neurologici e antropologici». Di Stefano: «Mi piace molto quel che disse un critico: Dante ha ancora il potere di accelerare i battiti del nostro cuore. Ecco la sua attualità, nella musica trascinante del racconto con cui trascina via via le sue e le nostre emozioni. È straordinaria la sua capacità di farci entrare in una realtà aumentata».