Venerdì 22 Novembre 2024

Che paura hanno i poeti di non riuscire più a cantare

Aldo Nove, autore de “Poemetti della sera” (Einaudi)

E’ l’ora del vero dissentire. La memoria è di colore bianco e il giorno, come un uccello nero, sta appollaiato sul ramo di un albero. È  questo il momento più adatto per leggere i “Poemetti della sera” (Einaudi) di Aldo Nove: «Il giorno della mia morte/non ci saranno più differenze/tra l’urlo degli alberi che ancora/reclamano il mio nome/e quello di tutti,/da sempre». È questo il momento in cui il poeta si tradisce con un verso, per cui conviene stare ad ascoltarlo: «A gioco finito/l’eterno sarà la mia danza/e avrò per amici angeli e costellazioni,/e tutti i sogni/che abbiamo fatto o faremo/avrò per amici…». È un romanzo in versi, una lirica raccolta di racconti poetici che svelano preziose parti di sé, quest’ultima opera di Aldo Nove. Un’opera che non ha paura di puntare in alto, “massimalista” per l’appunto, per l’ambizione che esplicita di voler confessare, di dover ammettere che l’anima – la nostra anima, l’anima di tutti noi – piange nel buio: «La gloria/di un angelo si frantuma in mille/sequenze di nero in cui/ci abbracciamo, fratelli/spaventati dai passi/dei genitori,/la notte». E le sue/nostre passate stagioni le descrive come «…scintille/che vorticavano/in nuove/attese». Ci svela Aldo Nove: «…non viviamo/se non a squarci, come/fosse un sogno casuale,/un ripetuto/sogno la vita/reale…». È questo in fondo il destino del poeta, quello di ritrovare, ogni tanto, per caso, piccole parti di sé che credeva perdute: «Così la nostra/esistenza con troppa/indulgenza senile/precoce/trascorre qui/dove non siamo veramente». Ma, lo sappiamo bene, il delirio dell’aria fresca (l’incombenza del reale) spinge il poeta a prendere atto del buio che gli sta crescendo dentro. È un destino comune dei poeti: hanno paura di non riuscire più a cantare. Hanno paura del patibolo, ma se ne sentono attratti: «Quando il sentire/sommerge/il pensiero/è tempo/di partire, perché/c’è/un solo/sentiero/che resta all’apparire/del vero se il giorno/finisce…». E ancora, più avanti: «Una volta discesi/nel silenzio vibrante/che chiamiamo istante/non c’è che, vorticoso,/il presente». Verso una naturale conclusione: «Quando abbiamo/indossato la maschera/che abbiamo,/tu che leggi,/io che ho scritto/ci ritroveremo, un giorno nello stesso/infinito adesso». Ed ecco allora che incombe «la fine del mondo». Al poeta non rimane che seguire la geometria, l’esattezza dei suoi desideri. Ma le sue rughe sono diventate più antiche, più profonde delle gole del Grand Canyon. Il sole lo colpisce come una verità a lungo attesa. E lui lo lascia fare: «Una discesa senza/pista. Senza/io. Una raffigurazione/mai vista.//Pure, ci sarebbe stata,/c’era.//Ora che nulla/dura, tutto/continua/a finire/incredibilmente/puntuale». È giunto il tempo, per il poeta, di rimanere solo: conscio di un’illusione che è stata ospite a casa sua. Ormai, il fin-qui-tutto-bene è diventato casa sua: «… dove solo siamo sempre/stati noi stessi, così/ che abbagli e/ riflessi ci tengono/ancorati all’illusione/di essere nati,/alla narrazione che chiamiamo/la nostra vita…». Il poeta si sente a questo punto come un segugio babbeo sulle tracce di un senso, come se scrivere equivalesse a compiere ancora piccoli passi per conquistare il delirio. In continua, perenne «rivolta contro il mondo contemporaneo», Aldo Nove prende nota, con cura meticolosa, dell’abisso, di un «sempre più affollato miraggio d’ombre», mentre «scendiamo nel gorgo dell’inumano». Non rimane la considerazione che il poeta – «nell’informe proliferare insensato di norme» – non si stancherà mai di cercare la verità, giacché è in grado di scoprire ancora parti di sé inesplorate, sapendo che la somma dei suoi anni gli darà sempre risultati sbagliati.

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