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Guardami, e fammi vivere. A colloquio con Carmen Pellegrino sul suo ultimo romanzo

La storia, intensa eppure delicata, di Cloe, esplorata attraverso il non detto, il sospiro in luogo della parola

Carmen Pellegrino, "La felicità degli altri" (La nave di Teseo)
Carmen Pellegrino, "La felicità degli altri" (La nave di Teseo)

Per riuscire a raccontare il dolore dei bambini serve tanta delicatezza. La scelta più semplice è quella di cedere ad una narrazione straziante, mortifera; viceversa, la scrittrice campana Carmen Pellegrino ne “La felicità degli altri” (La Nave di Teseo, candidato alla prima fase del Premio Strega) ha scelto di costruire una storia in cui i “non detti”, le attese e i sospiri, pesano più degli eventi narrati.
Classe ’77, dopo l’esordio con “Cade la terra” (Giunti, 2015) e il successivo “Se mi tornassi questa sera accanto” (Giunti, 2017), da un telefono fisso nella casa di Napoli in questa intervista si racconta parlando del suo nuovo romanzo in cui racconta di Cloe, «una donna che ha imparato a parlare con le ombre» e della sua infanzia negata e traumatizzata da un abbandono: è la narrazione di solitudini che si sfiorano in una continua ricerca dell’identità perduta, passando attraverso luoghi dimenticati e vite corrose dall’oblio.

«Un libro che è il frutto di un lungo lavoro di sfrondatura per eliminare tutto ciò che c’è di superfluo nelle parole, procedendo per sottrazione», afferma l’autrice, «composto da capitoli brevi ma densi, intervallati da spazi bianchi fra un paragrafo e l’altro, lasciando al lettore il respiro, perché possa completare la pagina scritta con i suoi stessi pensieri». Ritroviamo un’autrice già affermata che si è distinta nel lavoro di ricerca sul campo e per il quale è stato coniato il neologismo “abbandonologa”, cogliendone l’intento di chi perlustra il territorio alla ricerca di borghi abbandonati, edifici in rovina, strutture e attività dismesse di cui documentare l'esistenza e studiare la storia, procedendo parimenti al recupero di parole in disuso, ormai perdute.

Per la sua protagonista, la ricerca di un’identità comincia con la scelta di un nuovo nome?
«Esattamente. Si chiama Clotilde ma ancora bambina sceglierà di chiamarsi Cloe, un nome che rimanda all’antica Grecia, con un significato etimologico preciso che evoca l’erba nascente. E da lì in poi, nelle varie fasi della sua travagliata vita, anche emotivamente parlando, arriveranno nuovi nomi, scelti per autodefinirsi anche nelle proprie contraddizioni. Parimenti, ho usato una lingua che procede per sottrazione e sfrondatura, sfruttando gli spazi fisici sulla pagina perché Cloe avesse margine di manovra per raccontarsi al lettore in conseguenza degli eventi e del trauma dell’abbandono da cui tutto parte e che la spingerà alla ricerca di qualcosa che sembra sfuggirgli fra le dita».

È possibile fare un parallelo fra luoghi e persone abbandonati?
«Senza dubbio, le cose sono fra loro collegate. Mi occupo di ciò che è poco visto o proprio dimenticato, continuo a lavorare sui luoghi e ad una cartografia dell’abbandono in cui si aggiungono sempre nuovi elementi. Dedicarsi alle persone invisibili, coloro che chiamo “gli ammutoliti abitanti del buio”, è stato un passo necessario, proprio come il professor T., docente di Estetica dell'ombra che vive e muore senza mai essere visto. Badate, vivere una vita da invisibili, una vita in totale solitudine, significa dover morire numerose volte, sempre nel disinteresse generale».

È lo sguardo, l’essere visti che ci rende viventi?
«Ci definisce. Lo sguardo dell’altro, uno sguardo che coglie, ci dona la percezione di noi stessi. Cloe cerca proprio questo e giunge ad innamorarsi della foto di una donna trovata sul banchetto di un rigattiere. Se ne innamora perché quella donna, guardando verso l’obiettivo, punta il suo sguardo verso Cloe che si sente finalmente unica, viva, riconosciuta. Proprio la ricerca d’uno sguardo la accosterà al mutuo bisogno del professor T, di sentirsi riconosciuto e percepito. E i luoghi, i borghi abbandonati, hanno bisogno di questo: essere visti e vissuti».

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