Sarà che ci sono dei momenti in cui certe letture ci colgono alla sprovvista, quando meno ce l’aspettiamo, mentre siamo più sensibili – chissà perché – ma devo ammettere (e non con vergogna, bensì con fierezza) che molte pagine dell’ultimo romanzo di Giulia Caminito, “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani), nella dodicina del Premio Strega, mi hanno commosso, mi hanno fatto venire le lacrime agli occhi. Lacrime di pietà, di tenerezza, di comprensione nei confronti di Gaia – la ragazzina-ragazza-donna protagonista del romanzo – ma anche lacrime di sdegno, d’indignazione, sicuramente di rabbia, perché l’umanità è ingiusta e ha costruito un mondo che non va quasi mai come dovrebbe andare. Ma la verità è che questo libro commuove perché ti entra sotto la pelle come una creatura invisibile e non ti abbandona più, cose che solo la poesia riesce a fare. Gaia – di cui per tutta la durata del libro (fino alla fine) non viene mai pronunciato il nome – si racconta e ci racconta gli anni della sua formazione. A cominciare dalla somiglianza che la lega alla madre Antonia («Io sono la piccola lei e lei è la grande me…») e di come soffra questa somiglianza («Ogni nostra caratteristica è per me mortale difetto»), vissuta quasi come una condanna. Anche lei, come il fratello Mariano, figlio di un altro padre, «colleziona ribellioni» e confessa di se stessa: «Io sono cera e candela, rimango spenta e in bilico sul candelabro». Dalla prima casa di Roma – cinque metri per quattro – dopo alterne vicissitudini, la famiglia di Gaia, guidata da Antonia, la madre eroica e combattente mai doma, si trasferisce sul lago di Bracciano. Con Gaia ci sono anche, oltre Mariano, il padre, ridotto su una sedia a rotelle da un incidente sul lavoro, e i due fratelli gemelli. Ed è lì – inizio degli anni duemila – che prende corpo la sua storia. Il racconto della voce narrante è quello che ricostruisce infanzia, adolescenza e gioventù, ma non solo gli anni della formazione (gli «anni del pellegrinaggio»), anche quelli della scoperta degli altri e del confronto con loro e con la propria famiglia: «Il ci mi comprende come una prigione, il noi in cui nessuno mi ha chiesto se voglio abitare». E la scrittura, che anima e agita la voce della protagonista, ha la caratteristica di sostenere la realtà al punto da farla diventare metafora (e viceversa). Come quando Gaia si chiede: «Perché per noi deve essere così difficile capire a che luogo apparteniamo?». Forse semplicemente perché Gaia deve ancora scoprire che non è un luogo quello al quale dobbiamo sentire d’appartenere, ma a noi stessi. Che sia Anguillara Sabazia, sulle sponde del lago di Bracciano, o Roma, dovremmo essere in grado di accettare la presenza degli altri intorno a noi. Ma questo libro – dal triste titolo assai esplicativo – è destinato a tutti quelli che nella vita non possono fare altro che lottare. Un libro politico, dunque, che forse vuole essere letto, in un certo senso, come una disperata forma di rivendicazione, ma anche come una orgogliosa forma di rivendicazione: «…ogni giorno ci toccava in sorte una nuova battaglia per difenderci dai giudizi e dalle pretese di chi aveva più di noi…». E poi più avanti e in modo anche più chiaro, più dichiarato: «…a molti gli errori vengono condonati a noi no, se sbagli in basso paghi il doppio, non hai rete di protezione, non hai conoscenze, non hai i soldi per pagarti l’assoluzione». Libro-rivendicazione, dunque, perché la protagonista non ha ricevuto per caso il «dono della favella», ma se l’è guadagnato sul campo, se l’è andato a cercare. È grazie ai suoi studi – quegli studi, con la passione per i libri, fortemente imposti dalla madre – che Gaia può svelare (e rivelare anche a se stessa) il senso del mondo a cui appartiene: «Io vorrei dire che tutti mentiamo sulla nostra famiglia, è quello il covo delle nostre più ardite bugie, dove nascondiamo la nostra identità, ci inventiamo favole, proteggiamo ingiustizie, facciamo incetta di luoghi comuni e ci barrichiamo dietro alle grida, le urla, i misteri…». Il nuovo romanzo di Giulia Caminito (il terzo, dopo il premiatissimo “La Grande”, 2016, e “Un giorno verrà”, del 2019) intenerisce per quel ritratto della giovane protagonista che ama farsi a pezzetti – inclemente, furiosa con gli altri, ma prima di tutti con se stessa – e si chiede continuamente perché. Insomma, Gaia non si capisce. E fortunatamente, si potrebbe dire, per noi lettori, perché questo libro è fatto delle atroci domande che Gaia pone a se stessa, raramente concedendosi una risposta convincente: «Io voglio essere felice, voglio essere felice, fatemi essere dannatamente felice, mi sento di gridare, ma non ci riesco…».