La citazione è lunga, ma la definirei necessaria. Non solo per ricordare come l’avventura europea di Filippo Juvarra (Messina, 1678 – Madrid, 1736) sia cominciata proprio nella sua città natale, ma soprattutto per farci comprendere il suo modo di porsi di fronte all’architettura (riassunto nel suo motto «Chi poco vede niente pensa…»), ovvero la sua capacità di vedere tutto: ciò che c’è e quello che ci potrebbe essere. Capacità che lo ha fatto “inventore” di palazzi, chiese, ville e, da urbanista visionario, di nuovi assetti cittadini.
«Quando nel 1713 – scrive nel suo “Elogio”, datato 1738, il letterato Scipione Maffei che aveva conosciuto Juvarra nella corte sabauda – venuto il re Vittorio Amedeo a prender possesso della Sicilia, e portatosi a fargli riverenza da Roma il Sign. D. Domenico D’Aguirre, nobil Giuriconsulto Siciliano fu questo ricercato dal Re, che uomini singolari si trovassero in Roma nativi della Sicilia. Il Sign. Aguirre gli parlò allora distintamente di D. Filippo, talché S.M. s’invogliò d’averlo, e gli ordinò di spedirglielo al suo ritorno, come fece. Giunto in Messina, lo richiese il Re di fargli vedere i migliori de’ suoi disegni, che supponeva avesse portato seco; al che rispondendo egli di non aver portato nulla, la Regina ch’era presente, mostrò qualche meraviglia di tal trascuraggine; ma quel gran Principe ripigliò subito, che non importava, bastando che avesse portato la testa, e la mano. Gli ordinò però di fargli il disegno d’un Palazzo da edificarsi sul porto di Messina, nel sito stesso in cui si trova tuttora il Palazzo regio; ma in guisa tale, che con le sue adiacenze si estendesse verso le colline che sono fuori, e potesse gioire di quelle caccie. Eseguì l’ordine D. Filippo con tal perfezione, e con tal prontezza, e con aver sì bene incontrata l’intenzione, che il re ne rimase con maraviglia; e avendolo anche in più discorsi per quel grand’uomo ch’egli era, lo dichiarò suo primo Architetto e seco lo condusse a Torino».
Cominciò così la carriera (a Roma, pur allievo stimatissimo di Carlo Fontana, che lo riteneva «capace di tutto», aveva fatto soprattutto scenografie per il Cardinale Ottoboni) del prete architetto che era nato da una famosa famiglia di argentieri di Messina, dove aveva potuto sin da bambino esercitare la “mano” e la “testa” sul disegno e sulla sua immediata applicazione. Vorrei dire che ogni disegno di Juvarra contiene in sé già l’ipotesi approfondita di quello che poi poteva essere il progetto definitivo, legato al territorio. E anche nei paesaggi c’è sempre un’intuizione che sarebbe restrittivo chiamare urbanistica, avendo invece anche un profondo significato antropologico e contenendo in buona sostanza passato, presente e futuro di un luogo, di una strada o di un palazzo.
Tutto questo insieme è esaltato dall’allestimento della mostra che la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino dedica all’architetto con il titolo “Filippo Juvarra regista di corti e capitali dalla Sicilia al Piemonte all’Europa”, che, in attesa di tempi migliori per la cultura, è visitabile online (www.juvarrallanazionale.it) con la guida di alcuni dei curatori. La parola «regista» è significativa perché va molto oltre il quadro d’insieme che ogni architetto dovrebbe avere, ma indica, in maniera felicemente specifica, le qualità visionarie del grande messinese: «Un artista a “tutto tondo” – viene spiegato – dentro e oltre il barocco: non solo geniale architetto, ma anche vedutista, scenografo, interior designer e molto altro ancora».
Tutto appare chiaro nella sequenza espositiva del “Corpus juvarrianum”, il più consistente fondo di disegni (oltre mille) di Juvarra, di proprietà della Biblioteca. Ecco quindi che, accanto ai progetti più famosi (da Palazzo Madama a Superga, da San Filippo Neri a Stupinigi, dalla reggia di Venaria al Palazzo Reale di Madrid e tanto altro) e all’incredibile (lo sarebbe ancora oggi) “drizzamento” della contrada di Porta Palazzo e l’apertura di lunghi e possenti assi viari che hanno dato a Torino un volto urbanistico invidiato in tutto il mondo, ci sono i “Penzieri”, carboncini e acquarelli che, tra astrattismo e preimpressionismo ante litteram (mi si perdoni l’iperbole critica), sono il ritratto, affidato alla “mano” dotata di qualità pittoriche, di una “mente” che non sta mai ferma, capace di una creatività inarrestabile.
E ancora “regista” si riferisce pure alla sua attività di docente, cominciata all’Accademia di San Luca a Roma e poi continuata a Torino, anche e soprattutto come maestro dei suoi allievi di “bottega”, seguiti in ogni particolare (ci sono i fogli di esercizi), compresa la vita pratica di cantiere.
La mostra è corredata da una pubblicazione che alla concretezza scientifica aggiunge una serie di notizie (sempre sulla base di documenti) che ci rimandano alcune informazioni sui tratti umani di Juvarra che Maffei raccontava così: «Allegro, di buona conversazione, e molto amico de’ divertimenti», nonostante avesse vissuto parecchie delusioni, specialmente a Roma. Diretto dipendente del re, il Primo Architetto evitò sempre di frequentare la Corte, dove non era molto amato, un po’ perché il suo stipendio era più alto anche di quello del Gran Ciambellano (ma lui non aveva beni propri), un po’ perché era considerato di umili origini, né più né meno che un povero prete (successivamente fu nominato Abate di Selve).
Così Juvarra non volle mai abitare a corte: prima ebbe un appartamento nel convento dei padri filippini; quando poté costruirsi una propria e adeguata abitazione lo fece al limite della città. Ancora al tempo della discussione per la Palazzina di caccia di Stupinigi, il consiglio dei nobili lo fece sedere «su una sedia senza braccia, discosta dalla tavola» ed evitò di chiamarlo Cavaliere, titolo che gli aveva dato Giovanni V di Portogallo (dove l’architetto andò per progettare ma anche in missione segreta per combinare il matrimonio del figlio di Vittorio Amedeo, con una strana triangolazione con Roma e Londra).
Ma lui era ostinato e di ostinazione probabilmente è morto. L’ambasciatore sabaudo a Madrid raccontò che Juvarra, non avendo il re di Spagna adempiuto all’impegno di fornirgli una carrozza, si ostinò a passeggiare a piedi nel freddo inverno della capitale, fino a essere colpito da una broncopolmonite che nella corte madrilena fu molto sottovalutata. Così morì da solo il 31 gennaio 1736: erano esattamente le cinque della sera.
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