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Il nuovo disco del siciliano Davide Shorty in una sola parola: "fusion."

Palermitano ma cittadino del mondo, s’inventa un sound di mescolanze ed eleganze, unico perché ricco di diversità«Un disco suonato, scritto, cantato per necessità, in un periodo in cui per noi artisti la creatività è stata l'unica salvezza»

“fusion.” E c'è già tutto lì, nel titolo. Tutto minuscolo, urlato a bassa voce. Una dichiarazione d'intenti e insieme una manifestazione di pensiero libero, slegato. Una magna carta d'identità, contagiata e contagiosa e sconfinata non nella definizione di un genere: un dato di fatto, «pura accettazione» del più naturale tra gli inquinamenti. Col punto finale, come se non ci fosse «niente da aggiungere, nessun bisogno di spiegazioni».

Un punto che fa il punto, che presagisce inizio dopo ogni fine, con un fine che non è «e basta», che suona «ancora». Un segno che non chiude il discorso, ma apre ad un mondo, al mondo, tutto il mondo. “fusion.” (appena uscito per Totally Imported/The Orchard) «è un disco suonato, scritto, rappato e cantato per necessità, in un periodo in cui per noi artisti la creatività è stata l'unica salvezza». Lui è Davide Shorty, bravo vero, bravo e vero. Siciliano di Palermo trapiantato a Londra («sono partito ed ho inseguito il mio cervello in fuga»… «in Italia il musicista non è una professione, non si mangia una canzone»). Un artista che sulle infezioni musicali ci ha purificato una carriera («riguardo la mia musica, i paragoni sono lusinghe» ci raccontò in una lunga intervista prima di andare a Sanremo e vincere, con la sua “Regina”, il “Lunezia”, i premi “Lucio Dalla” e “Jannacci” tra le Nuove Proposte).

Come la sua terra d'origine, in quella “isolitudine” influenzata ma caratteriale, che ha trasformato la mescolanza in coincidenza. Mista e originale. Ci sono i testi, molti, e i tasti, pochi. Il sound minimo, sottratto, ricercatissimo, elegante, raffinato, affinato. Affilato. “fusion.”, anche l'altra metà (la prima non era riuscito a trattenersela, l'aveva già rilasciata in pieno Festival, il 5 marzo), è pieno di somiglianza con se stesso, ricco di diversità, libero come la partecipazione, straniero e mai straniante. Tredici tracce dense come cioccolato nero, una track list fondente al gusto di soul, jazz, funk, cantautori.

Ha il suono dell'attrazione, ha il talento della responsabilità di chi non guarda, vede. E sente, e ne risente. È inconfondibilmente vocale e incredibilmente corale. Dentro ci sono i feat con Koralle (side project di Godblesscomputers), Dj Gruff e Gianluca Petrella (trombonista italiano e jazzista di fama internazionale), Serena Brancale, Sans Soucis,Amir Issaa, Davide Blank, Tom Ford, Emanuele Triglia. Quelle con-di-visioni che «sono veri e propri frammenti di anima. Sono infinitamente grato ad ogni persona che ha reso possibile la realizzazione di questa raccolta di brani. Non vedo l'ora di farvelo ascoltare dal vivo!».

Ma, tra le considerazioni di una vita sulla vita, c'è la storia che risalta, che fa trasalire, che riporta a galla le derive di certe menti mentre ti affonda l'anima, una rete a maglia fitta come il buio di vene fredde. La tromba marosa, grossa di Roy Paci, la penna increspata e palombara di un altro palermitano, Alessio Bondì. Un finale infinito di oltre sette minuti, sette come il numero che unisce terra e cielo. Un grido composto, spiegato e senza veli, un lamento che “Abbannìa”.

«Chianciennu ‘nta stu mari/Sta spiranza 'un l'astutari/Stu sangu ca siente u pitittu/Na matri strince un figghiu strittu/Ciatu miu ‘stu mari è malirittu/Accussí bieddu accussì friddu. Signuri s'iddu é u jornu miu rimmillu/U me cori manciatillu/M'addumanna nta sta varca runni vaiu Mu ci'u rici a chisti comu staiu? Picchí un tinni vai?/Ma chi ti fici a tia?/U nivuru abbannía».

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