Mentre nella babele in cui viviamo siamo in cerca disperata della nostra Itaca e Ulisse – primo uomo moderno – sembra la figura più congeniale cui ispirarsi, per superare la drammatica crisi globale, ecco che l’Howard University (ateneo afroamericano dove hanno studiato il premio Nobel Toni Morrison e l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris) chiude il dipartimento dei classici. Una “catastrofe spirituale” ha tuonato il filosofo afroamericano Cornel West, rammentando come i classici siano stati la base di formazione degli eroi della lotta per i diritti civili dei neri, a cominciare da Martin Luther King. Niente da fare. Neppure l’avvertimento profetico dello storico Ernst Junger secondo cui senza Ulisse non ci sarebbe stato nessuno sbarco sulla Luna, ha fermato la Howard, che si è allineata all’ostracismo di altre università nei confronti di autori considerati «dead withe males», vessilli del suprematismo bianco. Tutto questo mentre nel mondo fioriscono nuove traduzioni mostre e nuovi studi, sul “viaggiatore” simbolo dell’eterna ricerca.
In Italia è arrivato per la prima volta il sequel dell’Odissea (Odisea nell’originale) di Nikos Kazantzakis (1883 – 1957) tradotto da Nicola Crocetti che è anche editore (pagine 795, euro 35). Un inno alla grandezza dell’uomo, alla fragile grandezza dell’uomo, ha definito la prosecuzione fantastica dell’epos omerico di Kazantzakis (l’autore di “Zorba il greco”) l’accademico di Francia Alain Decaux. Iniziata nel 1924 e pubblicata nel 1938, l’Odisea, per distinguerla umilmente da quella omerica, è il viaggio alla ricerca della salvezza: la ricerca della liberazione che dà valore al viaggio. Tredici anni di lavoro, sette stesure, 33.333 versi suddivisi in 24 canti, lo stesso numero dell’alfabeto greco e dei canti dei poemi omerici, il poema di Kazantzakis è anche un’odissea linguistica e lessicale, poiché riporta l’Ulisse omerico nella lingua greca della tradizione orale, recuperata dall’autore girando la Grecia, per ascoltare la voce di pastori e contadini sopravvissuti alla modernità. Già solo questo basta per capire come l’opera di Kazantzakis sia stata una grandissima operazione culturale, frutto di grande idealismo e di passione, nota Nicola Crocetti, che ha il merito di aver tradotto in Italia lo scrittore neogreco più tradotto nel mondo.
Ulisse, è dunque sempre pronto a riprendere il mare; è lui l’eroe a cui Dante fa pronunciare la famosa “orazion picciola”: «... Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» che in questo “secolo smarrito” ci aiuta a capire l’inesauribile vitalità che pulsa tra le righe delle opere classiche, dice Bianca Sorrentino, autrice di Pensare come Ulisse (il Saggiatore, pagine 230, euro 16), libro che svela le ferite che non sappiamo guarire e le domande a cui non sappiamo rispondere, suggerendoci la lettura dei classici per riappropriarci della nostra storia perduta; cercando la bussola che ci indichi la direzione giusta verso cui incamminarci. Il prodigio può avverarsi, sostiene l’autrice, se pensiamo che le inquietudini che ci assalgono sono le stesse che fiaccavano Ulisse, al cospetto di mostri e sirene, quando lui sapeva di doversi affidare alle parole, al suo ingegno, per sopravvivere, adoperando la sua mente colorata e multiforme per non soccombere.
Una rilettura appassionata dell’Odissea la fanno Enrico Cerni e Giuseppe Zollo con Ulisse, parola di leader (Marsilio, pagine 222, euro 19) un saggio con cui accompagnano l’eroe nel suo lungo viaggio di ritorno verso gli affetti familiari della nativa Itaca. Lo studiano lungo le tappe del suo tragitto Cerni e Zollo, per individuarne i punti di forza e di debolezza, per comprendere come il suo comportamento, il suo modello possa essere attuato nella contemporaneità. Da quali sfide imparò di più? Che cosa non si è rimproverato per essere arrivato solo (avendo perduto tutti i compagni) a Itaca? E soprattutto quali parole usava per convincere?
Le parole, le parole antiche, quelle che sanno mostrare che cosa è vero e che cosa è giusto, sono quelle che ci servono, scrive Laura Pepe in La voce delle Sirene (Laterza, pagine 206, euro 18) sottotitolo “I Greci e l’arte della persuasione”, racconto in cui le sirene insieme ad altre figure mitologiche affini, Circe, Calipso ed Elena, incarnano uno degli aspetti costitutivi, o meglio ancora primitivi, di peithò: la persuasione, e segnatamente la “persuasione d’amore”, la seduzione. Le sirene, con la loro voce suadente e ammaliatrice, sono le protagoniste del libro, che indaga sulla potenzialità della persuasione, sulla parola che, insieme, seduce e convince. In un tempo scandito da slogan e dalla comunicazione attraverso i tweet, “la voce delle sirene” consente a Laura Pepe di scavare e sondare la forza, la versatilità, la bellezza che i Greci riconoscevano alla parola e al suo incredibile potere.
Un viaggio sentimentale tra le creature che ci incantano da millenni è invece quello di Agnese Grieco che con l’Atlante delle sirene (Il Saggiatore, pagine 343, euro 28) narra un mondo che ci trasporta in epoche e mari remoti, eppure vicinissimi, poiché le sirene sono un mito senza tempo. Scrivere di sirene come fa Agnese Grieco che le sirene le ha catalogate, descritte, sezionate col bisturi del chirurgo, significa ascoltare voci che si incrociano e si sovrappongono, che tacciono e poi tornano a parlare, uguali e mutate, in epoche e lingue e luoghi diversi. Scrivere di sirene, dice l’autrice, significa aprire gli occhi sul delicato passaggio tra corpo umano e corpo animale, tra uomo e animale, e lasciarsi stupire. Poche figure paiono in grado di farci compiere lunghissimi viaggi come le sirene, da sempre maestre di metamorfosi e di malinconia. Così appaiono nell’atlante di Grieco.
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