Quando ho finito di leggere l’ultimo libro di Murakami Haruki, “Prima persona singolare” (Einaudi), nel chiuderlo sono rimasto male, perché avrei voluto che non arrivasse mai quel momento. Avrei voluto potermi rivolgere allo scrittore giapponese e chiedergli, come fa il bambino della canzone di Guccini: «Mi piaccion le fiabe raccontane altre…». Si tratta di una raccolta di racconti, otto per l’esattezza, tradotti in italiano da Antonietta Pastore, che hanno la comune caratteristica di essere scritti come se fosse appunto lo stesso Murakami Haruki – lui, lo scrittore, in carne e ossa – a confessarci qualche segreto episodio della propria vita: «Ero l’uomo che esisteva lì in quel momento, in prima persona singolare. Se avessi fatto anche solo una volta una scelta diversa, probabilmente ora sarei stato altrove. Ma allora chi era, quello che vedevo riflesso nello specchio?».
La letteratura di Murakami Haruki è sempre sorprendente, basata com’è sulle vicissitudini di personaggi che si aggirano per la vita come se fossero nella sala di un museo, con la capacità di scoprire capolavori dietro ogni nuovo angolo. I suoi personaggi si può dire che camminino per le strade senza una meta, fino a che, d’improvviso, inciampano in se stessi: «Come se la causa e l’effetto di ogni cosa si tenessero abbracciati nel centro del mondo». Così, anche i protagonisti di questi bellissimi racconti prendono nota delle proprie colpe, quasi come se stessero scrivendo la lista della spesa.
L’autore di “Kafka sulla spiaggia” ama ridurre in polvere l’esistenza dei suoi personaggi, così, senza nessun motivo, come del resto succede nella vita di tutti noi, poi lascia che il vento della narrazione disperda quella polvere fino a che l’insorgere della casualità non ricompone in maniera magica e sorprendente gli avvenimenti.
Inaspettatamente, tutto cambia, e i protagonisti delle storie di Murakami Haruki, sono costretti a osservare il mondo che li circonda e li contiene da un’altra prospettiva: «Quando sono arrivato in cima alla scala, mi sono accorto che all’esterno del palazzo la stagione non era più la primavera. La luna era scomparsa dal cielo. La strada non era quella che conoscevo. Non ricordavo di essere mai stato in quel quartiere». Come tutti noi, anche ai personaggi di Murakami capita di attivare il pilota automatico, prima di uscire da casa. La routine di tutti i giorni soggioga il loro entusiasmo, ingrigisce i loro peccati veniali. Finché non avviene qualcosa di inaspettato, qualcosa di veramente assurdo e inconcepibile, qualcosa di cui si rendono subito conto ma che non riescono a spiegarsi: «La consapevolezza di una leggera sfasatura».
Magari mentre sono seduti su una panchina al parco ad aspettare che qualcuno convinca il loro sguardo, sono pervasi dalla «sensazione di non essere nel contenitore giusto, oppure di non esservi ben sistemato, come se a un dato momento qualcosa fosse andato storto. A volte succede».
Nel racconto “Confessione di una scimmia di Shinagawa” per esempio, Murakami ci racconta di un tempo in cui viveva da solo con se stesso e abitava nella grande casa dell’esistenza in cui era l’unico inquilino. Un giorno, durante un viaggio, trascorre la notte in una locanda di montagna, e decide di fare un bagno termale. Tra i vapori caldi – come avvolto dalle nuvole di un tempo onirico – spunta una scimmia che gli rivolge la parola: «Buonasera, vuole che le lavi la schiena?».
Ecco, questa svolta della sua narrazione ci lascia di sasso, impreparati: sono pochi gli scrittori che possono permettersi di raccontare una vicenda che trae spunto da un abbrivio del genere come se fosse assolutamente reale, rimanendo credibili, senza scivolare nel ridicolo e nel grottesco. Una scimmia che parla: il punto di vista, mai considerato prima, che irrompe nella narrazione e ne stravolge l’andatura, ne risveglia la trama e la infittisce, la complica. In una parola, la rende unica.
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