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Conversazione con i professori Valeria Della Valle e Giuseppe Patota:
Dante e le sue, le nostre parole

“Padre” della lingua italiana, dotto e geniale inventore di neologismi, studioso e trattatista prima ancora che poeta

Riscuote un crescente successo di pubblico “Le parole per dirlo”, il programma televisivo di Rai3 in onda ogni domenica mattina alle 10.30, condotto da Noemi Gherrero e dedicato alla lingua italiana. Ospiti fissi i professori Valeria Della Valle e Giuseppe Patota che, attenti alla storia delle parole attraversate e spiegate nella varietà e nella ricchezza sia del loro uso comune e corrente sia di quello antico o colto, regalano all’Italia tutta, con sapiente leggerezza, affascinanti racconti della nostra bella lingua.

Valeria Della Valle, già docente di Linguistica italiana alla Sapienza di Roma, redattrice del Vocabolario della lingua italiana dell’Istituto dell'Enciclopedia Italiana diretto da Aldo Duro e coordinatrice scientifica del Vocabolario Treccani, è membro del Comitato scientifico della Fondazione Bellonci e del comitato direttivo del Premio Strega. Giuseppe Patota, docente di Linguistica italiana all’Università di Siena, è accademico della Crusca e membro del suo consiglio direttivo, dal 2008 consulente linguistico di Rai Scuola, già direttore scientifico del Dizionario italiano Garzanti, del Thesaurus e con la Della Valle, del Nuovo Treccani. È autore, come Valeria Della Valle, di numerose pubblicazioni, di manuali di grammatica e di linguistica e di testi divulgativi dedicati alla lingua italiana.

Con i professori Della Valle e Patota abbiamo parlato di Dante, grande protagonista di questo anno di celebrazioni (ricorrono i 700 anni dalla morte), e considerato uno dei padri della lingua e della cultura italiana.

Professori, Dante è stato colui che ha inventato l’Italia. Perché?
Della Valle: «Perché ha inventato la lingua, ha creato un capolavoro assoluto usando la lingua nella quale ancora oggi tutti ci riconosciamo. La nostra nazione ha dovuto superare guerre, divisioni, una storia complessa, e ci ha messo molto per trovare l’unità, ma grazie a Dante ha avuto una base linguistica. La base per costruire l’Italia è stata la lingua».
Patota: «Intanto Dante nomina subito l’Italia, già nel primo canto dell’Inferno, e più volte nel poema. Ma la nomina continuamente in un’opera inevitabilmente e comprensibilmente poco frequentata a scuola, il “De vulgari eloquentia”. In essa è come se Dante riuscisse a individuare nella lingua lo strumento che dà unità al nostro Paese. Non perché pensasse a un paese unito come lo concepiamo noi – Dante, ricordiamolo aveva una visione dell’impero – , ma perché l’identificazione tra Dante e l’italiano da una parte e Dante e l’Italia dall’altra è molto forte. Dante non ha inventato la lingua italiana, essa c’era già, ma ha inventato le parole che abbiamo in comune con lui».

Quale neologismo, quale parola di Dante suggerireste?
Della Valle: «È importante ricordare a chi legge la capacità di Dante di creare nuove parole. Oggi i neologismi scandalizzano tanti, ma Dante è stato il primo a crearne; alcuni sono entrati regolarmente nella nostra lingua quotidiana, altri continuano a esistere come dantismi. Parole come “inzaffirarsi”, per dire del bel colore di zaffiro del cielo, o “squadernare” per indicare nel Paradiso le cose che nell’universo sono divise e sparse come fogli separati di un volume raccolte nella profondità dell’essenza divina. Penso pure a “trasvolare”, che Dante usa per il volo degli angeli e a noi fa venire in mente le trasvolate atlantiche degli aerei. Il verbo è sempre lo stesso e ci ricollega a Dante che per noi ha creato una lingua comune immortale».
Patota: «La parola che sento più dantesca è “amore”, che attraversa non solo la “Divina Commedia” ma tutte le opere di Dante. Stefano Carrai, grande studioso, autore di una nuova edizione della “Vita Nova”, ha detto che se anche Dante non avesse scritto la Divina Commedia, sarebbe stato comunque, già per la “Vita Nova”, un grande scrittore nella storia della letteratura italiana ed europea. Ma poi, di amore si parla pure nel “De vulgari eloquentia”: le parole che si riferiscono all’ottimo volgare, al volgare illustre, quelle dell’Italia, parlano di amore per la lingua».

Qual è il vostro Dante? E qual è il Dante di tutti noi, dell’uomo comune, dell’everyman?
Della Valle: «Come studiosa il “mio” Dante è quello latino perché con il trattato latino “De vulgari eloquentia” rivolgendosi a chi sosteneva il latino difende le ragioni del volgare e con forza persuade della possibilità di usare il volgare, e difendere tutta la poesia in volgare, ma usando il latino per arrivare ai dotti dell’epoca. Il Dante dell’uomo comune è quello dei modi di dire. Il successo della “Commedia” fu immediato, in un tempo in cui ancora non c’era la stampa. Però veniva letta, recitata, imparata a memoria, ecco perché il successo di tanti modi di dire che tutti, tuttora, usiamo. Pensiamo a “senza infamia e senza lode”, “galeotto fu il libro e chi lo scrisse”, “color che son sospesi”, il “Bel Paese”, solo per citarne alcuni».
Patota: «Ci sono due canti che amo particolarmente: il V dell’Inferno, il canto di Paolo e Francesca, il canto dell’amore e della pietà, e l’ultimo del Paradiso nel quale Dante è capace di raccontare la sua esperienza di Dio. Ora non è che Dante avesse visto veramente Dio, ma è come se lo avesse fatto, è un grande costruttore di immagini come si sa, ma io credo che pure il più ateo degli atei, il più agnostico di fronte a quel racconto avrebbe qualche dubbio. Quanto al Dante dell’uomo comune è più difficile rispondere, ma penso che il Dante di tutti è quello dell’Inferno, arrivato persino in questi giorni nella pubblicità di un gelato, l’Inferno, così presente nella narrativa e persino nel nostro immaginario riferito ai deportati dei campi di sterminio quando per raccontare l’indicibile dell’orrore si usa l’espressione “gironi danteschi”».

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