«E il mio Maestro mi insegnò com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire»... Tra le parole, quelle talvolta incomprensibili e perciò giudicate, tacciate. Nelle melodie, quelle talvolta incomprese e pertanto giudicabili, tacciabili. Taciute mai. Attraversate dalla voce, una tessitura duale, quasi corale: strana e straniante, bassa e sottile, alta e grave, incongruente eppure conducente. Conduttrice. Col fiato corto di chi si arrampica Etna dopo Etna, Vulcano dentro Vulcano. Lingua su lingua, di fuoco, scalando le sacre sinfonie del tempo, come lode all'inviolato. Magari pure in mezzo alla tanta leggerezza e un po' di stupidità di questa nostra povera patria abusata di strapotere. Bisognerebbe insegnarlo nelle scuole Francesco Battiato da Ionia, come "materia grigia" e sfumata. Nella vita di generazioni informi da formare ed informare sarebbe necessaria la sua ora. Cuntare che da qualche parte, in quella parte di universo che obbedisce all'amore, c'è stato uno così, "franco" e "battiato", cioè schietto e consacrato. Un santuario di connessioni con l'altro mondo. Quello di idee ferme e perciò mutevoli, quello iperuranico di certe composizioni come meditazioni, mediazioni culturali in cui lettere e note, entrambe segni del tempo, danzano al ritmo dispari, impari del 7/8. Le prospettive celesti, ma anche verdi e distese come il centro di gravità permanente a Milo, una pendice, una appendice di Sicilia da cui vivere il mondo, dal principio alla fine. All'infinito. La più immanente tra le religioni, la sua. La più trascendente delle trasgressioni. Unire staccandosi dalla forma canzone, rimontare smontando persino Vivaldi, Beethoven e Sinatra (e i cori russi, e la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk inglese e pure la nera africana!). Tornendo gli accostamenti più stridenti, elettrificando il classico con scariche d'avanguardia. Generoso nel donarsi ad altri interpreti, alle donne della sua terra come Giuni, Alice, Carmen. A quelle universali come Milva. Con le filosofie di Manlio Sgalambro nella testa e il violino di Giusto Pio tra i denti, che spesso virtualizzava i giochi delle sue linee con le corde. Quella gestualità ampia, inclusiva, da direttore della vita. L'espressione del volto rivolto all'ascolto, ma metafisico, anche quando era lui a dire, pure mentre era lui a dare. Uno incredibilmente riservato, per quanto altrettanto incondizionato. E scandaloso. Negli anni Settanta, racconta chi c'è stato, entrava in scena, accendeva uno stereo con su musiche assurde e se ne andava. Il pubblico lo rincorreva inferocito. Dai primi dischi, Fetus (la cui copertina è stata censurata) e Pollution, ai pezzi di protesta, passando per quelli romantici, il via vai dal pop e le sperimentazioni. La canzone e la sua negazione. Fino alle colonne sonore per il cinema, la regia, altra sua passione oltre alla pittura. E alle opere colte. Le ultime, "Il cavaliere dell'intelletto" che esordì a Palermo, in cattedrale, e "Telesio", la cui prima rappresentazione fu ospitata al Rendano di Cosenza. Tutti lì a sventolare la sua bandiera, il ponte è stato lui. Preda consapevole di un animale che sta dentro e si prende tutto ("anche il caffè"). Che si allontana verso luoghi che sono tutti i luoghi. Presenza, assenza, essenza. Sordo alla voce del padrone. Tutti e chiunque hanno scelto di dirlo come l'aveva detto lui. Nelle ore dopo la notizia della sua morte, tutti e chiunque lo hanno citato, come per non aggiungere altro, per non contaminare il testamento, perché fosse valido contro ogni legge di revisione. Mentre tu rimani lì, 'nto vadduni da Scammacca, tra carritteri, saggi ginnici, u Nabuccu, coppie d'anziani che ballano valzer viennesi e una vecchia bretone, capitani coraggiosi e furbi contrabbandieri... Intona quella «stranizza d'amuri, cu tuttu ca fora c'è a guerra», ché vivere e persino morire non è difficile, potendo poi rinascere. Tu l'hai detto, è sembrato vero, come il resto, del resto. Come salvarti da ogni malattia, sollevando «le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare». Come continuare, venirti a cercare perché sei un essere speciale. Parole come “scomparso" o “addio" le contesteresti, sicuro. Ma intanto, «nei miei occhi che piangono mille ricordi non muoiono».