Lunedì 23 Dicembre 2024

"Tutto un rimbalzare di neuroni". Così la Dad diventa un romanzo

Raccontare la DAD, l'acronimo che sta per “Didattica a distanza”, entrata di diritto non solo nel nuovo lessico dell'emergenza da Covid 19, ma nelle case e nelle menti di studenti, docenti e famiglie italiani, “spiegarla” con una storia lieve ma intensa che affonda come un bisturi nelle ferite inferte alla scuola in questo tempo smarrito, dilatato, in cui ci si è incontrati da remoto. Lo ha fatto Vanessa Ambrosecchio, scrittrice e docente palermitana con “Tutto un rimbalzare di neuroni” (Einaudi), un viaggio-racconto «in presa diretta di un momento cruciale della scuola italiana» che partendo proprio dal microcosmo di una piccola comunità e dalle storie individuali dei giovani personaggi, adopera la penna-telescopio per osservarne esistenze, fragilità e punti di forza. «Quelli che ritraggo - dice l'autrice - sono i personaggi di un romanzo e, come tali, sono veri senza essere reali, ma i disagi, le difficoltà, le carenze, gli ostacoli, sia della scuola a distanza come della scuola in presenza, sono assolutamente reali e concreti, sono il pane quotidiano di tante scuole d'Italia. La scuola è un termometro efficientissimo per misurare lo stato di salute di un Paese, e il nostro non è messo benissimo. La DAD ha forse definitivamente squarciato il velo su ciò che non si voleva vedere, ha gridato che il Re è nudo». Marzia, Manfredi, Aurora, Celeste, Giada, Emanuele, Zoran e gli altri sono lì, a invocare con fatica, attraverso la mediazione di uno schermo, la “pro” (pronuncia apocopata del più comune prof), distanti e dispersi, «resistenti passivi», tra connessioni impazzite, stanchezze remote e «tundre di silenzi». Ma in quell'appello, «Pro, ci sei?», in quel tendersi virtuale di mani e sguardi tra “pro” e alunni, c'è comunque «tutto un rimbalzare di neuroni specchio, che sembrano essere responsabili di tanta parte del processo di sviluppo, acquisizione e apprendimento». Nel racconto, come nella vita reale, non mancano i sogni, e quello della Ambrosecchio che «a scuola come in letteratura si sente chiamata ogni giorno a scommettere a occhi chiusi sui sogni, a perseverare in bilico sul “come se”, su quel crinale tra realtà e invenzione su cui corre anche la scrittura», è che questo libro «possa contribuire a tenere accesi i riflettori sulla scuola, ora che la DAD ha perso il suo fascino di scoop». «Mi auguro che aiuti chi è fuori dalla scuola a rendersi conto di quanto difficile, prezioso, oserei dire sacro, sia il lavoro dei docenti. Mi piacerebbe che il mio romanzo, con la leggerezza di una lettura godibile e al di fuori di chiassose polemiche da talk show, conducesse per mano ogni lettore a questa ormai imprescindibile presa di coscienza: se vogliamo davvero risollevarci, non solo dalla pandemia ma da una inveterata crisi culturale, economica e occupazionale, una è la parola d'ordine: la scuola prima di tutto!». Professoressa Ambrosecchio, avrebbe mai pensato di far diventare la DAD un racconto? «Gli eventi straordinari recano sempre in sé il dispositivo della narrazione, già mentre li viviamo sembrano dipanarsi come un racconto, ma mentre siamo nell'occhio del ciclone non riusciremmo ad afferrare il timone della narrazione, così restiamo a guardare, proprio come gli spettatori in platea. Allo stesso modo, noi docenti all'inizio di questa traumatica esperienza eravamo talmente sopraffatti dalla novità e dall'angoscia che non avevamo il tempo, l'energia e la lucidità per riflettere e rielaborare. Dopo qualche settimana, tuttavia, io avevo cominciato a prendere appunti: pensieri, riflessioni, soprattutto tanta nostalgia per la scuola “di prima”, una sorta di scrittura terapeutica, di presa di distanza e insieme di messa a fuoco del presente e del passato. Nel corso dell'estate, poi, ho lasciato andare la penna e l'invenzione, ed è nato il romanzo». Un acronimo e un'esperienza nuovi la DAD. Da dimenticare o di cui fare tesoro? «Di ogni esperienza bisogna fare tesoro, e questa è la lezione più importante che i nostri ragazzi, e noi con loro, hanno imparato con la DAD: nulla va mai dato per conquistato e acquisito, anche le realtà più apparentemente granitiche possono vacillare: l'importante è non crollare! Credo che la passione e la tenacia con cui migliaia di docenti hanno tenuto i loro alunni agganciati agli schermi per guadare questa inondazione e traghettare gli ultimi due anni scolastici, sia stata per loro d'esempio». Quali criticità ha messo in luce la DAD? «Ha messo in luce le fragilità storiche della scuola italiana: la carenza di personale, la mancanza di continuità didattica, la necessità di una formazione capillare e diffusa sull'uso degli strumenti tecnologici, ma soprattutto l'imprescindibilità di una didattica emotiva che agganci relazione e apprendimento, emozione e voglia di sapere in questi nostri ragazzi storditi dai media, spesso soggetti a “declino di empatia”. E ancora, la DAD ha rivelato come tanti territori non dispongano ancora di una adeguata copertura di rete, molte famiglie non hanno i device necessari a sostenere una didattica che dialoga ormai abitualmente con i mezzi informatici. Soprattutto di questo bisognerebbe fare tesoro: di quanto sia stata pesantemente discriminante la DAD, e da questo dato ripartire per ridisegnare la scuola italiana». Per la scuola lo stato di emergenza è stato un naufragio, ma qual è stata la zattera cui ci si è aggrappati? «Il mio romanzo è, in parte, il racconto di un fallimento, lo scoramento di una professoressa che cerca di riproporre la scuola tradizionale da dietro uno schermo e, ovviamente, non solo non riesce, ma ha la netta percezione di vedere andare in fumo il lavoro fatto negli anni precedenti. La zattera che alla fine intercetta e cui si aggrappa, e con lei gli alunni, è quella della didattica emotiva. Soltanto ripartendo dai ricordi, dalle esperienze condivise, dai giochi di gruppo, dalle letture fatte insieme non come “compito” ma come momento di svago, lei e la classe riusciranno a rimettere insieme le tessere di un passato per rintracciarvi il volto del presente. Fuor di metafora, la DAD ha retto solo nei casi, e sono certamente moltissimi, in cui i docenti avevano precedentemente stabilito una relazione intensa con i gruppi classe. Diversamente, è stata una deriva».

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