«New York è stata per me come una madre adottiva, esigente ma capace di mantenere le promesse». Nasce da qui, libro dopo libro, l’idea di Antonio Monda di dedicarle una saga di libri che giunge al suo ottavo passo con il romanzo, “Il principe del mondo” (Mondadori) ambientato a ridosso degli anni Trenta, negli ultimi barlumi del cinema muto hollywoodiano. Classe ’62, docente alla New York University, direttore artistico della Festa del Cinema di Roma e del festival Le Conversazioni, Monda compone un affresco ricchissimo di sfumature, ponendo al centro della storia il patriarca Joseph Kennedy – uomo assai controverso, filonazista e padre del futuro presidente americano – che all’apice della sua ricchezza, «cercò il modo per sconfiggere il tempo e vincere sulla morte, senza riuscirvi». Oggi a Messina (h18.30) Monda incontrerà i suoi lettori nella tappa che conclude il lungo tour siciliano, prima ripartire con nuovi incontri in giro per la penisola. Com’è nata l’idea di una saga per celebrare New York? «Inizialmente non c’era alcun obiettivo, ho iniziato a scrivere per esprimere il mio rapporto con la città e un mondo che mi ha ospitato. La saga è nata un libro alla volta, danzando fra fiction e documentazione storica». Raccontare l’evoluzione di New York a tutti i lettori, dal cosmopolita a chi non ha mai viaggiato, è arduo? «È una città di tradizione, insieme conservatrice e rivoluzionaria. Sembra un ossimoro ma è davvero così, vivendola la si scopre in questa sua natura contraddittoria. Una città di energia ma piena di paura, la cui forza è proprio nei contrasti». Scrive, «viviamo qui perché c’è la Statua della Libertà… e anche per il gusto di dimenticarcelo». «Sì, la libertà è anche questo, il lusso di dimenticarsi il contesto». Al centro di questo romanzo c’è il patriarca Joseph Francis Kennedy. Che immagine ne emerge? «Luci ma soprattutto ombre. Mi ha sempre colpito l’idea di patriarcato in un mondo che predilige l’individuo sulle famiglie. Si tratta di un uomo molto ambiguo. È sempre lucido e ambizioso ma spietato, anche verso i propri cari come dimostra la decisione di far lobotomizzare Rosemary (la sorella minore di John Fitzgerald Kennedy – che nacque con una disabilità mentale che la sua famiglia cercò di tenere nascosta per anni, ndr). Un gesto terribile, imperdonabile. Non solo, Joseph Francis Kennedy era filonazista e antisemita, mi affascinano quei personaggi negativi ma ancora lucidi e capaci di lasciar ancora emergere degli spiragli di luce dalle profondità del loro animo». La boxe è una grande metafora della sua narrazione. Perché? «Perché è lo sport dei re, una mia grande passione personale. Con buona pace di Pierre De Coubertin, il quale affermava che l’importante è partecipare, la gente vuole vincere, stravincere, persino umiliare l’avversario. Se non avessimo vinto gli Europei saremmo lo stesso felici? Non scherziamo». Alcuni scrittori hanno praticato la boxe, come Norman Mailer ed Ernest Hemingway, molti altri, invece, hanno celebrato il baseball… «Gli americani, Philip Roth su tutti, dicono che lo sport pacifista sia il baseball e quello guerrafondaio sia il football americano ma lo sport più epico ed antico del mondo è la boxe, basti pensare che se ne parla nella Bibbia». Racconta che Joe Kennedy aveva un confessore sempre a portata di mano. Verità o finzione? «Tutto vero, la sua amante, Gloria Swanson, era una delle star del cinema muto hollywoodiano. Joe ha seppellito quattro figli, aveva un rapporto assai complesso con la propria fede, io ho soltanto inventato il nome del confessore ma il resto è storia». Destinati secondo il patriarca a dominare il mondo, oggi cosa rimane dell’eredità dei Kennedy? «È la famiglia aristocratica americana del XX° secolo segnata dal lutto e dal dolore, chissà forse in parte dovuto alle tante nefandezze compiute dal patriarca…». Il principe del mondo è il Diavolo. Lei è religioso? «Lo sono. Credo che la vita sia una via Crucis, ma alla fine ci attende la redenzione».