E’ quando Nicola Gratteri dal palco del Magna Graecia Film Festival fa notare, con malcelata durezza, come i genitori si occupino sempre meno dell’educazione dei figli - e da lì si addentra nel buio della devianza giovanile – che si intuisce quanto poco lo sfiorino le invidie, le manovre, i tentativi di delegittimarlo. Punture di spillo rispetto alla caparbietà dei suoi obiettivi, professionali e, soprattutto, culturali. Quella a cui aspira il procuratore della Repubblica di Catanzaro è, difatti, una rivoluzione culturale, da perseguire attraverso un tenace sforzo educativo, un cambio di mentalità “dal basso” da lasciare in eredità alle nuove generazioni.
Gratteri era la persona giusta al posto giusto, l’altra sera al Magna Graecia Film Festival di Gianvito Casadonte, non certo e non solo per l’accoglienza da star con il soundtrack de “Il gladiatore”, la standing ovation finale e la consegna del Magna Graecia Award affidata al prefetto di Catanzaro, Maria Teresa Cucinotta. Ma perché là dove si fa cultura lui ha molto da dire e da insegnare. Non per i tanti volumi che ha scritto insieme al professor Antonio Nicaso e neppure perché vuole «farsi capire dalla signora che ha soltanto la quinta elementare» - lasciando intendere una comunicazione forte e inclusiva - ma poiché ha posto la cultura della legalità in cima ai suoi obiettivi.
La deriva della Calabria per lui è un problema culturale. A partire dalla percezione della criminalità organizzata.
«Sul piano storico – dice al moderatore Antonio Capellupo e al pubblico della vasta arena a ridosso del porto di Catanzaro – non c’è stata una corretta narrazione della ’ndrangheta. Sedicenti uomini di cultura e intellettuali sono andati in giro sostenendo che un tempo c’era una ’ndrangheta “buona” che rispettava le donne e i bambini. Sono sciocchezze confezionate per gli utili idioti. Per i picciotti elevati a ’ndranghetisti dalla borghesia e dall’aristocrazia.
Abbiamo studiato – rimarca - che già negli Anni Settanta la ’ndrangheta era nelle logge della massoneria deviata. C’era già stato il salto di qualità. Agli ’ndranghetisti si è data la possibilità di entrare nelle logge dove si discuteva non di appalti di opere, ma se le opere andassero realizzate o meno. Cioè nei centri decisionali di potere.
E con il professor Nicaso – incalza Gratteri – abbiamo scoperto negli archivi che già all’inizio del Novecento venivano ammazzati bambini di tre, quattro anni. Una famiglia fu sterminata dalla ’ndrangheta dal primo all’ultimo componente, compresi i bimbi piccoli e perfino i gatti di casa, a cui fu mozzata la testa. Del resto non era un bambino il piccolo Cocò?».
L’approccio educativo Gratteri lo esercita in primis con i suoi sostituti, «mettendo i giovani con soli due anni di servizio nei processi della Dda, perché devono annusare l’odore, diventare segugi…». Forte il richiamo alla responsabilità collegato anche al documentario “Se dicessimo la verità” di Giulia Minoli ed Emanuela Giordano, proiettato successivamente nel corso della serata. Un contributo, quello del procuratore Gratteri, che ha fornito una chiave di lettura consapevole dell’attività, orchestrata in modo scientifico e strategicamente mirato, portata avanti nella lotta alla criminalità organizzata.
Il principio, ha ribadito il magistrato, è che «quando si vuole, le cose si fanno…».
Persone:
Caricamento commenti
Commenta la notizia