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L’infanzia è... ricostruzione. Intervista alla scrittrice Laura Bocci

Le mitologie, le figure, gli intrecci, i salti, i nodi: come quell’ “irrefrenabile impulso autobiografico” può aiutarci

«L’infanzia è una costruzione a posteriori che dura una vita intera, cui via via, nelle varie fasi della memoria autobiografica, si aggiungono, scompaiono o si ricompongono grandi pezzi o semplici tasselli. Ma è proprio da qui, dall’inespresso e forse dall’inesprimibile dell’infanzia, che nasce l’individualità della persona. Dunque, ritrovare e andare incontro a quel bambino o bambina che si è stati, è un modo di rifondare la propria persona». Così scrive in “Mitologia d’infanzia. Figure, intrecci di vita, storia” (Vallecchi editore) Laura Bocci, germanista, scrittrice, fine traduttrice letteraria, con tanti interessi, dalla psicoanalisi alle Artiterapie, dai temi del transfert al femminismo (ha creato a Roma il “Cantiere Autobiografia”, Gruppo d’incontro sul tema della scrittura autobiografica). E quando le chiediamo come è stato rivolgersi con un «tu» autobiografico alla bambina che lei è stata (una delle tante forme dell’autobiografia indiretta care all’autrice), per scavare nella propria storia familiare e, dunque, in quella dell’Italia dalla fine dell’Ottocento, guerre comprese, agli anni Sessanta, ci dice che farlo «non è stato facile, ha rivelato molti vuoti, molte mancanze e assenze».

«In questo libro, dalla lunghissima incubazione – dice – , quasi ogni parola è stata uno scoglio; ho faticato a trovare la lingua, che è decantata, è come un estratto denso, concentrato». E se alcune cose sono state dolorose, come il rapporto con i genitori che nel romanzo viene solo accennato, l’idea di far diventare i nonni Zita, Cesarina, Primo, Giovanni, delle figure letterarie, e pensare a cosa ne direbbero loro se potessero leggersi, ha molto divertito l’autrice.
Praticare l’infanzia nella forma del ricordo, lei scrive, è necessario e vitale. Perché recuperarne pezzi e lacerti rientra nella mitologia d’infanzia?

«Tutti viviamo l’infanzia, è ovvio, ma in realtà, almeno fino ai sei/sette anni, senza esserne veramente consapevoli. Sono piuttosto gli altri, i genitori, il resto della famiglia, le persone vicine, a raccontarci la nostra infanzia, ma nella loro interpretazione soggettiva. Di fatto veniamo raccontati anche a noi stessi, e spesso si tratta di una o più narrazioni in cui poco c’è di sicuro. Dunque la propria infanzia resta avvolta in una sorta di nebbia, dalla quale a tratti emergono immagini, suoni, odori, parole, e questo molto spesso accade quando per caso incontriamo un piccolo oggetto, o vediamo una certa minuscola foto (come è successo a me con l’immagine che sta sulla copertina del libro, in bianco e nero, con il cappottino ora colorato di rosa a evocare un brano del libro). Tutto si fonde in qualcosa di indistinto eppure di fondamentale: è qui che nasce la persona».
Da giovani, la famiglia d’origine è ingombrante e le storie familiari sembrano non riguardarci direttamente. Quando, invece, riprendono significato?

«Arriva a un certo punto della vita, non presto, quello che la psicoanalisi chiama “un irrefrenabile impulso autobiografico”. Io ho sempre praticato la “scrittura dell’Io”, la sola che mi interessi perché non sono una vera narratrice di storie, anche se ammiro molto chi sa inventare personaggi e intrecci, ma cerco sempre di scavare un po’ più a fondo della superficie, e lì sotto ci trovo me stessa. Forse è anche un modo per tenere a bada l’Io, sempre invadente, infliggergli una disciplina, una regola».

La sua operazione di recupero memoriale e documentario ha comunque un valore di testimonianza.
«Vere testimonianze per quanto riguarda i nonni le ho avute dai miei cugini molto più grandi, all’epoca testimoni oculari dei fatti raccontati. Ma è specialmente alle nonne, alle loro storie che sono sempre stata molto sensibile, e questo fa parte dell’ottica di consapevolezza femminista che mi sono conquistata con gli anni. Ricordo ancora via Cherubini e gli incontri, nel seminterrato di una libreria milanese che vi teneva Lea Melandri nel ‘72/’73. E la Casa Internazionale delle Donne di Roma che frequento da molti anni e in cui, con l’amica di una vita e docente universitaria Novella Bellucci, organizziamo seminari su scrittrici del mondo, note e meno note, con tanti contributi di studiose di vaglia: è la nostra militanza politica, quella di far ascoltare e riascoltare le loro voci».
Raccontando della sua, lei parla della famiglia di tipo patriarcale, ancora fondamentalmente contadina, dalla fine dell’Ottocento al dopoguerra, fino all’incipiente boom economico. Cosa significa raccontarlo, oggi, con l’idea della famiglia che ha subìto tante trasformazioni?

«Le storie di Zita e di Cesarina dimostrano nei fatti quanto la famiglia patriarcale fosse il principale luogo dell’oppressione delle donne, merce di scambio del capitale simbolico e reale maschile, prive di valore in sé ma utili nei matrimoni e nelle trattative tra famiglie, oggetti muti destinati alla riproduzione e alla trasmissione dell’eredità paterna. Le donne erano, e in gran parte sono ancora, espropriate di sé. Non ho nessuna nostalgia per le due famiglie patriarcali che descrivo nelle varie situazioni. Per le tante e varie famiglie di oggi, ovviamente, a ciascuno la sua libertà, ma credo che conti molto essere solidali e lasciarsi reciprocamente spazi liberi, mentali e concreti. Le giovani donne, ma soprattutto i giovani maschi forse iniziano a saperlo fare, e non senza difficoltà e fatica, perché i loro padri non hanno insegnato loro nulla se non il modello antico che, se viene rifiutato, non trova alternative. La grande colpa storica dei miei coetanei, la generazione che oggi ha tra i 60 e gli 80 anni, credo sia proprio la mancata elaborazione di un cambiamento personale e collettivo, che solo le donne sono state in grado di realizzare dagli anni ‘70 in poi. Sarebbe stata una grande occasione anche per loro, ma non l’hanno colta. Del resto credo molti abbiano pensato, perché chi detiene tutti privilegi dovrebbe darsi da fare per perderne una buona parte a favore delle donne?».
Da quella «specie di giacimento d’oro cui si può attingere per tutta la vita» che è l’infanzia, lei cosa ha portato alla superficie, che possa essere godibile o cosa su cui riflettere per il lettore?

«Nell’infanzia, sia essa andata bene o male, è nascosto secondo Freud il nostro Io più vero, la vera radice di quello che siamo. Comprenderlo ci dice qualcosa di noi, di quella vita anteriore e forse indistinta ma colma di segni e di tracce, e può aiutarci, se ci si mette davvero in ascolto, a capire chi siamo diventati, forse persino a vivere meglio la vita che ci è toccata e che in parte ci siamo costruiti, e magari anche la sua fine»

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