Jón Kalman Stefánsson, uno dei più noti scrittori islandesi e molto apprezzato all’estero, è un poeta che scrive romanzi (tra i suoi più noti “Paradiso e inferno”, “La tristezza degli angeli”, “Il cuore dell’uomo”, tutti editi da Iperborea), per la cifra della sua scrittura lirica, fortemente evocativa che fluisce come una musica (è appassionato in particolare di rock e di jazz) e dà forma e stile alle sue parole.
«Sono le parole a renderci umani, è la parola ad avere un potere magico ed è proprio la poesia ad essere la forma più antica, più intima e più alta di letteratura posseduta dall’uomo. Credo che la poesia possa metterci in contatto con qualcosa di più alto», così Stefánsson si racconta ai giornalisti nell’incontro svoltosi alla XXV edizione del Festivaletteratura di Mantova, che si chiude oggi.
«In Islanda – dice – esiste il concetto di potere creativo proprio nel senso sciamanico del termine, e infatti le leggende islandesi popolari sono piene di storie di poeti e di poetesse che con la forza della parola erano in grado di cambiare il clima, di ammansire gli animali, perfino di uccidere. Nel 1950, narra la leggenda, una poetessa riuscì a scatenare l’inferno per impedire all’esercito americano, di base in Islanda, di compiere un’esercitazione militare da una roccia che si voleva protetta».
E pochi come gli islandesi hanno un rispetto sacro per l’ambiente, pure quando questo rappresenta una sfida per la vita stessa dell’uomo, come Stefánsson narra nei suoi romanzi. Anzi proprio da quella sfida nasce la poesia come da una sorgiva primordiale. E a Mantova, Stefánsson ha presentato “La prima volta che il dolore mi salvò la vita” (Iperborea, traduzione di Sara Cosimini), silloge di tre volumi delle sue poesie giovanili (1988-1994), scritte quando il suo io poetico, ardente e impetuoso, riteneva i versi come una vocazione e un destino, pubblicate con testo islandese a fronte e accompagnate da una autobiografia molto particolare e divertente.
Come considera quell’esperienza poetica ora che la prosa occupa tutto il suo io lirico?
«Come un laboratorio in cui incontrare un me stesso da giovane. E ritrovarvi certe ingenuità, certi difetti, certe arroganze giovanili. Ma gli amici in Islanda da tempo mi chiedevano che quei versi venissero ripubblicati e ora ne sono felice. Però ho ritenuto opportuno farli precedere da un’introduzione per spiegare un po’ di me e come sia avvenuto l’approdo alla poesia e poi il passaggio alla narrativa».
“La prima volta che il dolore mi salvò la vita” mette in relazione il dolore con il poetare?
«Il dolore come la gioia può dare linfa vitale alla poesia. La creazione poetica è come un albero che ha diverse radici portanti. Quanto a quei versi, ho un ricordo fermo del tempo cui mi riferivo. Avevo tredici anni, era estate, mi trovavo in campagna, e il senso della vita non mi sembrava più accettabile. Un pomeriggio i fattori proposero di recarci in una piscina poco distante, un’occasione che ritenevo propizia per il mio gesto estremo. E invece, durante il percorso in auto la radio trasmise la notizia della morte di Elvis Presley. Non fu tanto la notizia a scuotermi, in fondo per me tredicenne Presley era un “vecchio”, quanto i due bellissimi suoi brani che seguirono. Pensai che se al mondo c’erano delle cose così belle come quella musica allora potevo decidere di restarvi ancora. E, infatti, la musica è per me ossigeno, consolazione, compagnia, dà forma alla mia scrittura e spero che il suo suono sia percepito da chi legge».
Come è avvenuto allora il passaggio alla narrativa?
«Dopo il terzo libro di poesie, nel 1993, attraversai un periodo un po’ difficile in cui non riuscivo più ad esprimere la poesia che avevo dentro. Leggevo, come faccio tuttora, molti poeti, islandesi e stranieri, e nel confronto con i grandi avevo la sensazione che mai sarei potuto arrivare a quella altezza. Quindi, dopo due anni piuttosto difficili in cui avevo dentro un mondo che premeva ma che non riuscivo ad esprimere, mi misi a scrivere in prosa. Le prime cose erano inaccettabili e solo quando cominciai a scrivere in prosa come se fosse poesia, solo allora la parola ha ricominciato a fluire».
Il mondo odierno ha ancora spazio per qualcosa di poetico?
«Un mondo senza poesia sarebbe terribile, sarebbe un mondo che sta morendo. La poesia alberga in qualsiasi cosa, è in noi, nel mondo e in qualsiasi attimo. Bisogna solo lasciare la porta aperta, accorgersene e trovarla. Se riteniamo che il mondo sia senza speranza, vuol dire che non ci si trova più poesia».
Il suo paese conosce stagioni e paesaggi estremi. Quanto la luce e il buio hanno influenzato la sua scrittura?
«Si dice che la luce nordica e il buio nella letteratura scandinava diano un tono malinconico a tanti autori della mia generazione. E sicuramente influisce molto il fatto che nel mio paese ci sia buio per tre mesi all’anno e la luce si vede per tre o quattro ore al giorno. Ma a me piace molto, mi dà la sensazione di stare in una grotta, con il buio che mi protegge. E poi, quando arrivano i mesi estivi, maggio, giugno, luglio, con la luce che dura ventiquattro ore, sembra di cancellare il tempo, si ha la sensazione che possa durare per sempre».
Il suo rapporto con la poesia oggi?
«Nella mia scrittura io adopero sempre il ritmo della poesia, anzi a volte inserisco dei versi. Prima pensavo che sarei tornato a fare poesia da vecchio e saggio. Però due anni fa c’è stato un fatto nella mia vita, come un terremoto che ha cambiato il mio territorio interiore e così da quella faglia è nato qualcosa di nuovo. Perciò, il prossimo mese in Islanda uscirà un mio libro di poesie, cosa che aspettavo ardentemente e mi rende molto felice».
Eppure, anche un lago può...scrivere quartine
«Va ieri, balenarsi nei cieli/come alle mie stelle/mezzogiorno l’alto/quale la tiepida patria». Questi versi non sono stati scritti da un essere umano, bensì dal... lago di Mantova il 5 luglio 2021, alle ore 14:15 quando la temperatura era di 28.2º, mentre la Clorofilla A era di 28.4 ug/1 e il pH 8.26, valori che hanno ispirato “i pensieri” del lago. Ebbene, quei “pensieri”, trascritti come vaticini in quartine di versi liberi, su cartigli emessi da un totem posto nell’installazione “La tenda poetica”, sotto la Tenda dei Libri di Piazza Sordello, bisogna pescarli.
«Il lago ha la capacità di capire», ne è convinto Pietro Corraini, editore che ha curato l’allestimento grafico e pubblicato il progetto nato nello Studio Oio di Matteo Loglio, designer e progettista che da tempo si occupa di intelligenze artificiali. Un’idea già sperimentata a Londra con il Tamigi e adesso a Mantova, in questa affascinante operazione che avvia a future applicazioni dell’intelligenza artificiale nell’ambito della creazione artistica e letteraria.
Per far “parlare” i laghi alimentati dal Mincio, si parte dall’installazione di boe con sensori che raccolgono dati forniti dal CNR (ora, temperatura, acidità) e inviati all’intelligenza artificiale già nutrita, come ci spiega Alessandro Della Casa, consulente letterario del progetto, di circa 60mila versi di poeti dell’Ottocento/Novecento, da Pascoli, Carducci e D’Annunzio a Gozzano, Campana e Negri. Ed è proprio la natura a suggerire le parole «bollente, fresco, gelido, tiepido, alba, mattino, sera, stelle», in base ai dati delle condizioni fisico-chimiche dei laghi ed è poi l’algoritmo, ovviamente grazie all’intervento dell’uomo, ad assemblarle e a generarle con questo esperimento di «pesca poetica».
Ma non è finita qui.
Esiste un luogo giusto per fare poesia? Per strada? In mezzo agli altri? O in solitudine, nella riflessione appartata? La verità è che c’è una grande voglia di poesia, il desiderio di ritrovare in essa la fiducia, di ascoltarla e viverla insieme, in mezzo agli altri, e darle nuovi riti per far camminare le parole. Niente tecnologia del futuro, niente AI, ma un vecchio furgone per dare voce e corpo alla poesia. È una poesia itinerante che per il secondo anno racconta e si racconta quella portata in giro ogni giorno con il Furgone Poetico, per le vie e le piazze di Mantova, con due diversi percorsi, per iniziativa di Alessandro Burbank, Francesca Gironi e Alfonso Maria Petrosino, poeti performativi, pionieri della scena italiana di slam poetry che dal cassone del Furgone Poetico declamano i loro versi. Un racconto che con Francesco Targhetta diventa occasione per riproporre, da piazza Virgiliana, i modelli di alcuni grandi poeti del Novecento (da Gozzano a Pagliarani) per arrivare ai romanzi in versi di oggi.
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