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Caro padre, non ti scrivo: l'ultimo romanzo dell'editore Giulio Perrone

La dolorosa stagione della malattia paterna e, vent’anni dopo, il regolamento di conti con la memoria, il lutto, il rimpianto

C'è sempre un momento di svolta, nel rapporto con un genitore che ci ha molto amati, a volte insopportabilmente amati, col quale ci siamo scontrati e sul quale abbiamo regolato, senza saperlo, una parte del nostro modo di essere. Ce ne accorgiamo dopo, col tempo, quando scopriamo una rassomiglianza che ci sconvolge, o ci consola, o tutte e due le cose assieme. Quando la vita ci consegna lo stesso ruolo, e lì facciamo i conti con l'amore e il senso di colpa, col rimosso e col non detto, con quel che è stato e quel che avrebbe potuto essere. Di questa svolta – di questo genere di dolore ben invecchiato in botti di remore – parla il romanzo “America non torna più” (HarperCollins Italia) di Giulio Perrone, singolare figura di editore-scrittore: è al suo quarto romanzo e nel 2005 ha fondato a Roma, con Mariacarmela Leto, la casa editrice che porta il suo nome. E il gioco dei nomi – che si ripetono nelle famiglie, assieme alle rassomiglianze, alle inclinazioni, alle ostilità, come un lascito durevole, forse un destino – arriva fino a oggi, al figlio che Giulio ha chiamato come il padre, che è, insieme con l'io narrante Giulio, giovane ribelle ma non troppo, amoroso ma non troppo, il protagonista del libro.
È evidente che lo strato profondo che alimenta l’amore di Giulio (Giulio il personaggio, Giulio l'io narrante, Giulio l'autore) per le storie, per le parole, per ciò che si deve e si può raccontare viene proprio da lì, dai racconti di suo padre. E da lì viene anche il terzo personaggio in gioco, l'elusivo, lo sfuggente, l'imprendibile America, di cui sappiamo subito tutto quel che c'è da sapere e null’altro: America non torna più. America – che invece torna sempre come un contrappunto, ma di cui ogni volta è descritta un'assenza, una fuga, un altrove – è forse la giovinezza: quella del padre, tutta Beatles, miti americani, amici con soprannomi fantastici come Godzilla o Karate, il calcio di Pelè ma anche “Il cielo in una stanza”, l’etica dell’eccellenza; quella del figlio, il giro del millennio cominciato col rogo delle Due Torri e il mondo che si chiude a riccio, gli U2 e i Nirvana, un certo modo di discutere tutte le mitologie precedenti, di non credere a nulla, l’estetica dello scetticismo.
America non torna, come non torna la giovinezza, come non tornano quei momenti in cui ci si sarebbe potuti dire di più, o forse dire di meno ma lasciarsi andare: da qui, oggi, sembrerebbe meno assurdo essersi scontrati tante volte, per cose come l’eterna contrapposizione tra impegno e passione, tra aspettative e delusioni, tra sacrificio ed egoismo. Tra le carriere e i successi che un padre voleva per te e quello che tu sapevi per certo di non essere, di non volere, di non voler diventare.
È un libro pieno di rimpianti, di tardive scoperte che lasciano il cuore nudo: il centro della narrazione è la breve stagione di vent’anni fa in cui il padre s’ammala e muore. E lì, come spesso accade, la camera dell’infermo è una camera di scoppio, sentimenti e risentimenti s’incendiano, il dolore si confonde con la rabbia. Giulio Perrone – che oggi incontrerà i lettori a Messina (alle 18 alla scuola San Domenico Savio, su iniziativa della libreria Bonanzinga) – racconta quei momenti al presente (ma qual è il tempo infinito, imperfetto, dell’assenza?), con spietata esattezza, intrecciandoli con capitoli corsivi – dove la lingua è più morbida, come lo sguardo – in cui la storia è solo quella del padre, di quel padre prima di essere padre che lui non ha conosciuto, di cui sa solo dai racconti, le “storie”, di lui.
Ed è il recinto della parola, alla fine, il luogo in cui tutto s’incontra: il passato, il presente, l’amore taciuto, le occasioni perdute, quelli che sono scomparsi, i racconti di prima e di dopo. La rabbia con cui l’amore ferito non ha saputo far fronte alla malattia e alla morte. L’esigenza di ricordare, il privilegio di dimenticare. «Questo libro ha cominciato a ossessionarmi molti anni fa», dice nei ringraziamenti l’Autore, illuminando una delle motivazioni da sempre più profonde che ci portano a scrivere, e a scrivere “autobiografie”: l’ossessione. Scriviamo per liberarci delle storie, e assieme per farle vivere, e chiedere loro di tenerci vivi.

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