Mercoledì 25 Dicembre 2024

Caro padre, non ti scrivo: l'ultimo romanzo dell'editore Giulio Perrone

C'è sempre un momento di svolta, nel rapporto con un genitore che ci ha molto amati, a volte insopportabilmente amati, col quale ci siamo scontrati e sul quale abbiamo regolato, senza saperlo, una parte del nostro modo di essere. Ce ne accorgiamo dopo, col tempo, quando scopriamo una rassomiglianza che ci sconvolge, o ci consola, o tutte e due le cose assieme. Quando la vita ci consegna lo stesso ruolo, e lì facciamo i conti con l'amore e il senso di colpa, col rimosso e col non detto, con quel che è stato e quel che avrebbe potuto essere. Di questa svolta – di questo genere di dolore ben invecchiato in botti di remore – parla il romanzo “America non torna più” (HarperCollins Italia) di Giulio Perrone, singolare figura di editore-scrittore: è al suo quarto romanzo e nel 2005 ha fondato a Roma, con Mariacarmela Leto, la casa editrice che porta il suo nome. E il gioco dei nomi – che si ripetono nelle famiglie, assieme alle rassomiglianze, alle inclinazioni, alle ostilità, come un lascito durevole, forse un destino – arriva fino a oggi, al figlio che Giulio ha chiamato come il padre, che è, insieme con l'io narrante Giulio, giovane ribelle ma non troppo, amoroso ma non troppo, il protagonista del libro. È evidente che lo strato profondo che alimenta l’amore di Giulio (Giulio il personaggio, Giulio l'io narrante, Giulio l'autore) per le storie, per le parole, per ciò che si deve e si può raccontare viene proprio da lì, dai racconti di suo padre. E da lì viene anche il terzo personaggio in gioco, l'elusivo, lo sfuggente, l'imprendibile America, di cui sappiamo subito tutto quel che c'è da sapere e null’altro: America non torna più. America – che invece torna sempre come un contrappunto, ma di cui ogni volta è descritta un'assenza, una fuga, un altrove – è forse la giovinezza: quella del padre, tutta Beatles, miti americani, amici con soprannomi fantastici come Godzilla o Karate, il calcio di Pelè ma anche “Il cielo in una stanza”, l’etica dell’eccellenza; quella del figlio, il giro del millennio cominciato col rogo delle Due Torri e il mondo che si chiude a riccio, gli U2 e i Nirvana, un certo modo di discutere tutte le mitologie precedenti, di non credere a nulla, l’estetica dello scetticismo. America non torna, come non torna la giovinezza, come non tornano quei momenti in cui ci si sarebbe potuti dire di più, o forse dire di meno ma lasciarsi andare: da qui, oggi, sembrerebbe meno assurdo essersi scontrati tante volte, per cose come l’eterna contrapposizione tra impegno e passione, tra aspettative e delusioni, tra sacrificio ed egoismo. Tra le carriere e i successi che un padre voleva per te e quello che tu sapevi per certo di non essere, di non volere, di non voler diventare. È un libro pieno di rimpianti, di tardive scoperte che lasciano il cuore nudo: il centro della narrazione è la breve stagione di vent’anni fa in cui il padre s’ammala e muore. E lì, come spesso accade, la camera dell’infermo è una camera di scoppio, sentimenti e risentimenti s’incendiano, il dolore si confonde con la rabbia. Giulio Perrone – che oggi incontrerà i lettori a Messina (alle 18 alla scuola San Domenico Savio, su iniziativa della libreria Bonanzinga) – racconta quei momenti al presente (ma qual è il tempo infinito, imperfetto, dell’assenza?), con spietata esattezza, intrecciandoli con capitoli corsivi – dove la lingua è più morbida, come lo sguardo – in cui la storia è solo quella del padre, di quel padre prima di essere padre che lui non ha conosciuto, di cui sa solo dai racconti, le “storie”, di lui. Ed è il recinto della parola, alla fine, il luogo in cui tutto s’incontra: il passato, il presente, l’amore taciuto, le occasioni perdute, quelli che sono scomparsi, i racconti di prima e di dopo. La rabbia con cui l’amore ferito non ha saputo far fronte alla malattia e alla morte. L’esigenza di ricordare, il privilegio di dimenticare. «Questo libro ha cominciato a ossessionarmi molti anni fa», dice nei ringraziamenti l’Autore, illuminando una delle motivazioni da sempre più profonde che ci portano a scrivere, e a scrivere “autobiografie”: l’ossessione. Scriviamo per liberarci delle storie, e assieme per farle vivere, e chiedere loro di tenerci vivi.

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