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Vent’anni di teatro rivoluzionario. Che può rivivere

Parla l’attrice e “narratrice” Carla Tatò. La straordinaria avventura della “Zattera di Babele” e delle “Giornate delle Arti”

L’occasione per tornare nella “sua” Sicilia è il ricordo che il festival culturale “Naxoslegge” ha dedicato allo scrittore, drammaturgo e critico musicale palermitano Aurelio Pes, scomparso nel dicembre scorso. Carla Tatò ha portato con sé, come sempre, il suo enorme bagaglio di passione, entusiasmo, curiosità inesausta, memoria di accadimenti meravigliosi, che da sempre caratterizzano la sua attività di attrice, anche se è meglio definirla teatrante a tutto tondo. Perché quel “sua” tra virgolette per lei che è romana? Per almeno due ragioni. La prima: essere stata per 45 anni compagna d’arte e di vita del regista Carlo Quartucci, padre autentico della sperimentazione teatrale italiana, nato a Messina. La seconda: la straordinaria avventura artistica rappresentata dalla “Zattera di Babele” e “Le giornate delle Arti”, cominciata a Erice nel 1984 e durata quasi vent’anni, dove appunto avvenne l’incontro con Pes. Più una terza in costruzione: ridare vita vera a quel periodo con un progetto che potrebbe nascere dall’Università di Messina.
«La prima volta che sono venuta in Sicilia fu nel 1974. Io e Carlo ci eravamo incontrati da un anno, quando lui si muoveva col suo camion bianco, che ha portato il teatro nelle borgate di tutta Italia, e io con la mia Harley Davidson rossa. Io, con la moto, sono salita sul suo camion e lui è salito sull’Harley. Andammo a Catania per realizzare uno spettacolo radiofonico negli studi Rai, in occasione del Premio Pirandello, dove incontrammo Mino Blunda, che poi divenne fondamentale per noi».
Fu un viaggio piuttosto lungo...
«Decisamente sì, perché ci fermammo a Messina, che Carlo mi fece girare in lungo e in largo, per mostrarmi tutti i luoghi della sua infanzia e adolescenza. Lui amava moltissimo la sua città, ma dovemmo aspettare il 1993 per essere chiamati a recitare nel Vittorio Emanuele con “Tamerlano il grande”, in un teatro che ha un meraviglioso palcoscenico».
E da Catania portaste un po’ di Sicilia con voi.
«Nel 1975 andammo a Torino per realizzare un’edizione radiofonica di “Tamerlano il grande”, in cui io recitavo accanto a Carmelo Bene, con cui avevo già lavorato sul palcoscenico. Carlo immaginò quella “storia” sulla riva della Sicilia Orientale». Poi nel 1984 il trasferimento a Erice, ma prima c’era stata l’esperienza di Genazzano. «Sì, la “Zattera” era nata in provincia di Roma, un paese che trovammo compatto accanto a noi con tutti i suoi 5mila abitanti e in cui abbiamo trascorso mille giorni e mille notti in un laboratorio permanente che riuniva tutte le arti: teatro, musica, pittura, scultura, architettura. Un progetto che, proprio a Genazzano, il paese dove c’è piazza Carlo Quartucci, dovrebbe rinascere a breve. L’idea è di fare un centro di studio, di ricerca e di spettacolo per artisti provenienti da tutto il mondo. E la stessa cosa si dovrebbe fare a Erice».
Torniamo allora alla “Zattera” siciliana e all’incontro con Pes.
«Lui era un grande personaggio, dotato di un’immaginazione eccezionale, in linea con il nostro “stravedere” la scena. Scrisse per noi una versione di “Medea”: la sua parola, che partiva dall’evocazione di tutte le Medee del passato, era gigantesca. La mettemmo in scena nella sacrestia della Cattedrale, mentre dalla finestra vedevamo passare asini e oche. Quello spettacolo girò moltissimo, animali compresi, andammo anche ad Amsterdam e altre città olandesi e dovunque il pubblico, soprattutto i ragazzi, ne diventava parte integrante. Io ero Medea, Luigi Cinque (capace di inventarsi al momento musiche straordinarie) Giasone e Carlo faceva il servo di scena (il regista che appariva e creava ostacoli stimolanti, nda)».
Con Pes avete fatto un altro spettacolo importante.
«Da dicembre ’94 a gennaio ’95 mettemmo in scena in un tendone da circo in piazza Magione a Palermo, prodotto dallo Stabile, “Ager Sanguinis” che Pes aveva scritto per celebrare gli 800 anni dalla nascita di Federico II. C’era di tutto in una messinscena che era una summa di visioni: clown, acrobati, sette cavalli, oche nere, cammelli, un asino e un porcellino d’India. Il falco di Federico era interpretato da un’acrobata».
Chi interpretava Federico?
«Io, e non c’è da stupirsi. Chi mi conosce sa che io non sono un’attrice, ma una narratrice. Abbiamo lavorato con immaginazione, ragione, capacità di andare in fondo, istinto, intuito e spirito critico. Istinto e intuito sembrano essersi persi, oggi tutto sembra piallato, ma io mi voglio battere perché queste caratteristiche umane così importanti riabbiano il loro posto centrale».
E adesso?
«Di quei vent’anni esiste un enorme patrimonio d’archivio, tutto conservato dalla Regione Siciliana. Col prof. Dario Tomasello l’idea è di ridargli vita vera, come si sta già facendo a Genazzano con l’Università Tor Vergata e l’apporto fondamentale degli studenti. Anche in Sicilia si potrebbe fare un laboratorio permanente, in grado di convogliare esperienze artistiche da tutto il mondo, con la collaborazione delle istituzioni culturali, pubbliche e private, dell’isola. Io ci credo».

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