«Non ci salverà il bello ma l’educazione alla bellezza, la capacità di cogliere e saper far tesoro del nostro Sud. Ma perché ciò accada dobbiamo smetterla di scimmiottare gli altri». Maurizio Fiorino ha un cuore calabrese e l’anima da girovago. Fotografo professionista si è riscoperto narratore, con un progresso di crescita costante – da “Amodio” a “Fondo Gesù”, proseguendo nel 2019 con “Ora che sono nato” - tenendo sempre i piedi ben piantati nella sua terra natia. Originario di Crotone, dopo l’esperienza newyorchese Fiorino (1984) si è trasferito a Milano e collabora con riviste nazionali. È appena tornato in libreria con “Macello”, il suo nuovo romanzo (edizioni e/o, pp.160 €15) che sta riscuotendo il consenso dei lettori grazie al passaparola. Al centro della scena Biagio, adolescente pieno di rabbia che negli anni 70 cresce nel retrobottega della macelleria del padre, in un Sud arcaico, terra di briganti e fattucchiere. Un Meridione aspro in cui Fiorino crea contrasti netti – le risate, i giochi d’amore e gli improvvisi scorci di mare – traendo ispirazione dalle pagine dell’antropologo calabrese Vito Teti: «Perché sono nato e cresciuto nella Magna Grecia». Maurizio, crescere al Sud è un macello? «Temo di sì. Ma ciò non significa denigrare le mie radici, anche per questo ho scelto di raccontare un Sud decontestualizzato, proseguendo quella ricerca già iniziata nei precedenti romanzi». Com’è nato “Macello”? «La scintilla è stata la malattia di mio padre, anni fa. Facevamo le notti in ospedale, immersi in un tempo sospeso e mentre lui era in coma ho supposto che nei suoi silenzi ci potesse essere il barlume di una vita sconosciuta. Ho iniziato a scrivere un libro sulle assenze, dal paese fantasma alla mancanza della madre, perché ogni personaggio lascia un vuoto nella vita di Biagio e lui deve farci i conti». Perché in pagina si affrontano il marciume e la bellezza? «Perché io sono cresciuto in bilico fra luce ed ombra. Sono nato in quella che era la Magna Grecia mentre oggi Crotone è un ammasso di capannoni e fabbriche in disuso. Eccolo il contrasto senza margini, e da scrittore mi affascina terribilmente». Ma oggi tu quale rapporto hai con la Calabria? «Sono calabrese nell’anima, amo la mia terra ma al tempo stesso l’odio che provavo nei suoi confronti mi ha spinto ad andarmene da diciottenne, a realizzarmi. Oggi la guardo con la giusta prospettiva». Biagio lo immagini figlio unico e orfano di madre. In paese lo considerano “strano”. Ricollegandoci alla tua prima passione, c’è un po’ del freak della fotografia di Diane Arbus? «Sicuramente. Diane Arbus mi ha stravolto la vita, quando le chiedevano perché immortalasse freak ed eccentrici, lei diceva: “dinnanzi a qualcosa che non conosco, non voglio modificarla, sono io ad adattarmi”. La stranezza di Biagio e di suo papà non è esplicitata ma si percepisce, sono personaggi portati al limite del paradosso estetico». Perché ti ispiri alla Arbus? «Diane mi ha sconvolto anche perché ha infuso la psicoanalisi nei suoi scatti, fotografava il nano o la donna gigante, cambiava continuamente ma rimaneva se stessa». Accade anche a te? «Quando scatti, proietti una parte di te. Susan Sontag diceva che ogni fotografo è un aguzzino. Anche inconsciamente percepiamo che c’è qualcosa di morboso, una sorta di sfida davanti e dietro l’obiettivo». Perché senti il bisogno di scrivere? «Mi affascinano i diversi tempi di elaborazione. Il fotografo studia l’inquadratura, il framing e le luci, al punto che la macchina diventa un tutt’uno con la mano. Lo scrittore, invece, usa la disciplina inseguendo la sua storia per anni, sinché si arriva alla parola fine». Maurizio, racconti un Sud arcaico fra briganti e fattucchiere, volevi lasciare la porta socchiusa all’elemento magico? «Sì. Ci sono due testi fondamentali per la genesi di questo romanzo, “Sud e magia” di Ernesto De Martino e “Maledetto Sud” di Vito Teti. Adesso so che vorrei raccontare ciò che siamo stati, la bassa magia e il legame con la terra, portandolo nel futuro, impedendogli di scomparire»