Essere presa per incantamento e lasciare fluire con le parole, ricordi, epifanie, sogni, malie, è la cifra narrativa di Giovanna Giordano, scrittrice e giornalista messinese, che con “Il profumo della libertà” (Mondadori), racconta una storia di coraggio che si svolge e avvolge a partire da Gesso, borgo peloritano in provincia di Messina, al quale torna sempre come l'antica madre, in un intreccio di saghe familiari «con le loro stranezze e le loro virtù, il dolce e l'amaro, come i Buendía» - dice la Giordano - (da lì partiva la giovanissima M. Grillo di “Trentaseimila giorni”, suo romanzo d'esordio nel 1996). «C'era una volta e c'è ancora una casa in collina - questo l'incipit del racconto, che arriva in libreria a qualche anno dall'ultimo libro, “Il mistero di Lithian”, del 2004 - davanti al mare delle isole Eolie, e lì viveva un candido ragazzo dagli imperdibili occhi azzurri, Antonio Grillo», che a vent'anni, nel 1923, sogna le praterie americane. Così comincia l'avventura picaresca in cui Antonio, compagno nel suo amato paesello di oche fatate e della cavalla Aurora, s'imbarca per la “Merica” con una valigia magica (tra le altre cose ci sono un sasso minerale di gesso, un pezzo di zolfo di Vulcano, l'immaginetta di sant'Antonio Abate e l'inebriante malvasia) e affronta la meraviglia e la paura del viaggiare, la stessa di Ulisse e di Enea, di don Chisciotte e di Robinson, di Gulliver e di Candido. Un caos di forze avverse e incontri felici, di prove ed esperienze formative con un procedere fiabesco in un tempo dilatato in cui, con leggerezza, sono affrontati temi importanti: il valore dei sogni, la ricerca della libertà, la crescita e la perdita, l'amore e l'amicizia, raccontati attraverso potenti simboli, la tempesta, il gioco delle carte, l'osteria luogo di incontri pericolosi, piratesse e brigantesse, aiutanti e antagonisti. Una storia che è un romanzo di formazione attraverso il tuo eroe Antonio Grillo. Come è nata? «Antonio Grillo era il fratello di mio nonno Placido. Era un uomo dolcissimo, sempre calmo, il tipico zio d'America che a Natale, quando di solito tornava nella sua Gesso-Itaca, trovando l'uva corniola e i fichi d'inverno piantati da nonno Placido, ci metteva i soldi sotto il tovagliolo e ci raccontava le sue storie stravaganti. Poi ritornava felice in America pieno di sole e di mare e di Sicilia. A lasciare la sua terra era stato spinto dal coraggio e dalla sete di novità; la nostra non era una famiglia povera e la campagna era stupenda. Eppure qualcosa nel suo cuore lo spinse a lasciare il certo per l'incerto. Partire era rinascere, era il coraggio dell'avventura». Ci sono tuttavia, nel racconto, tutti gli elementi della fiaba, la magia, le prove, gli aiutanti, gli oggetti magici. «No, non è una favola. Si chiamerebbero fiabe l'Odissea, don Chisciotte, Candido e i romanzi di Calvino? La letteratura antica si nutre del meraviglioso, quella moderna meno, ma per fortuna c'è chi nutre ancora questo sentimento. Sulle ali di questo viaggio da Messina agli Stati Uniti forse pure il lettore che ha la meraviglia sepolta sotto la cenere la può riaccendere. Senza meraviglia non si va da nessuna parte». Da Gesso alla “Merica”: che viaggio fu? «Questo eroe gentile parte a primavera e arriva alla fine dell'estate nel 1923 negli Stati Uniti, ma in tutti i viaggi meravigliosi che si rispettano il tempo non ha importanza, almeno quello vero. Non capita quando si è innamorati di trascorrere una giornata felice che alla fine è sembrata un minuto? Ecco, il tempo è solo e sempre figlio del nostro cuore». Tante suggestioni e rimandi letterari nel tuo romanzo... «Ho letto e amato così tanto i classici che tornano nelle mie pagine come le buone vitamine che danno forza. Cosa sarebbe il nostro mondo senza gli antenati? I nostri antenati sono Ovidio, Luciano, Ariosto, Virgilio, Voltaire. Senza antenati siamo cani perduti senza collare». Ed è meraviglioso anche far giocare tra loro le parole: tante espressioni paremiologiche della quotidianità con lacerti di dialetto della provincia peloritana. Ma abbonda pure il gioco saputo dei luoghi comuni, del non-sense, dei calembour. «Paremiologia, storia dei proverbi e dell'anima popolare, grazie per questa parola dotta. Quelle ore e ore ad ascoltare mia nonna Maria Grillo. Devo dire che la lingua che parlo anche in casa, con mia figlia che è ancora una bambina, è quella di Gesso. Anche alla Sorbona parlerei così. La lingua di adolescente al liceo Maurolico, con gli amici del liceo. Questo che io usavo e uso è anche, non sempre certo, uno slang. La lingua di uno scrittore va dove vuole lei, come il fiume nel mare; un romanzo che si crea e si disegna nella mente dello scrittore ha dei suoni misteriosi che vengono chissà da dove». Il femminile stesso ha una forza magica nel tuo romanzo. «Forse la vera rivoluzione dei nostri anni non è il web o l'arrivo sulla luna, ma è che alle donne è stata data dignità e libertà. Sempre nella nostra civiltà mediterranea le donne sono state il centro di gravità permanente, del mondo, di quello agricolo ma anche marinaro. Solo che nessuno aveva detto loro “siete brave siete forti”. Ecco, le donne nel mio romanzo sono segnali di questa forza e tenacia, ma nessuna di queste donne perde mai la tenerezza». Alla fine, dopo tanto mare e tanta acqua passata sotto gli occhi blu di Antonio, da questo «pianeta assurdo», pieno di mostri ma pure di meraviglie, cosa viene fuori? «Il nostro pianeta ha veramente dei tratti assurdi. Oggi vi sono così pochi ricchi e così tanti poveri, gente che butta il cibo nella spazzatura e tanti che lo raccolgono, case elettroniche e altre fatte di cartone. Eppure le utopie resistono. Questo libro ne contiene una: amiamo il mondo che calpestiamo, è unico e tutto nostro per il breve spazio della nostra vita. Don Lio Grillo dice al figlio Antonio, poco prima della partenza: “È duro lasciare questo mondo”. Ecco, mi fermo qui».