«Alla visione epica dell’eroe contrappongo personaggi fragili, difettosi, infermi e disorientati». Narratore sopraffino, Roberto Bolaño lo annoverò fra i migliori scrittori sudamericani viventi: Alan Pauls torna in libreria con “La metà fantasma” (Sur, traduzione di Maria Nicola), un romanzo lieve, una commedia sentimentale con una prosa elegante, narrando di Savoy e Carla – lui 50enne e sedentario, lei 30enne e iperattiva – due protagonisti che si incontrano sul web per una relazione imperfetta, alla ricerca della persona che potrà, un giorno, completarli. «Cambia il mondo – afferma l’autore argentino, classe ‘59, uno dei protagonisti della 33esima edizione del Salone del Libro appena conclusasi e impegnato in una serrata tournée italiana – ma noi ancora siamo aggrappati a miti e superstizioni che condizionano la nostra vita». Fra equivoci, viaggi intorno al mondo, corse, nuotate e deliri su Skype, leggere Pauls – sceneggiatore e critico letterario, autore di sei romanzi fra cui “Storia dei capelli”, “Storia del denaro”, “Il passato” e “Trance. Autobiografia di un lettore” – significa immergersi nel mondo della letteratura sudamericana e nella sua prosa si ritrovano echi di Julio Cortazar e Gabriel Garcìa Marquez, scansando il realismo magico e narrando il nostro mondo virtuale con un’ironia dolce e beffarda. Un titolo che rimanda al mito della metà perfetta e, al contempo, alle vane promesse della rete? «Esattamente. Affidarsi al web e sperare che ci completi è un abbaglio. Sia dal punto di vista materiale che sentimentale, i due piani su cui si muove il mio romanzo. Non c’è alcuna metà perfetta, temo, e se esistesse, dovremmo scendere a patti con le nostre pretese». Racconta con una bella ironia il mondo dei social in cui ciascuno diventa il proprio biografo. Che impressione ne trae, da romanziere? «Improvvisamente, ho una concorrenza planetaria, chiunque si mette a raccontare storie, ma per fortuna si limita all’autofiction e spesso lo fa mentendo. Leggiamo migliaia di status, li lasciamo scorrere passivamente sotto i nostri occhi e non sono letteratura ma favole, illusioni». Savoy è un 50enne sedentario mentre Carla è una trentenne nomade. I suoi personaggi si attraggono, almeno in rete? «La dimensione amorosa come contesto narrativo è proprio questo, come ostinarsi a voler far entrare un quadrato nello spazio di un cerchio. Una vana attesa alla costante ricerca di segni premonitori. Frustrante, no? Savoy si trova a disagio, il mondo virtuale non gli appartiene e gli equivoci che nascono sono il frutto di questa incomunicabilità fra le parti». A El Pais lei ha detto che i suoi personaggi non sono eroi o antieroi. C’è un dualismo esasperato anche nel mondo narrativo? «La letteratura che mi interessa non lavora con queste categorie elementari, non spezza il mondo in due per osservare ciò che accade. I personaggi che mi affascinano sono più completi e sfaccettati, alla visione epica dell’eroe contrappongo personaggi fragili, difettosi, infermi e disorientati, capaci di trovare in loro stessi visioni alternative, evitando i cliché». Cambia il mondo, sogniamo Marte ma nel frattempo leggiamo gli oroscopi e sogniamo di scovare la metà perfetta. Paradossi? «In qualche modo siamo sempre attaccati a credenze, superstizioni e valori arcaici che giungono dal passato e fanno parte delle nostre radici culturali. Ciascuno di noi vi scende a patti, li rielabora e mettendo da parte la ragione, fatalmente questo bagaglio riaffiora, determinando le nostre scelte di vita». Quanto siamo disposti a tollerare per trovare la felicità? È questa la domanda di fondo del suo romanzo? «Esatto. Le commedie e i film romantici, così come i libri, battono sempre su questo tasto e pazienza se c’è di mezzo un po’ di gelosia o di incomprensioni, basta che ci sia il lieto fine. Ma poi arriva davvero? Nel frattempo, la vita corre via e non saprei dire perché continuiamo a credere che, semplicemente, arriverà dal nulla la nostra metà perfetta. Forse è un bisogno di consolazione?». Ha detto che due scrittori – Manuel Puig e Roland Barthes – più di tutti hanno raccontato l’universo dei sentimenti. Ovvero? «Sono due maestri, imprendibili, capaci di unire il lato triviale e quello più etereo. Barthes, soprattutto, ci induce a cercare continuamente dei segni da decodificare nella comunicazione interpersonale, andando a caccia di significati sospesi e nascosti nel rapporto con l’altro sesso. Due visioni diverse che per me sono state decisive. Ma lo confesso, nessuno batte Proust». Davvero? «Proust mi ha cambiato davvero la vita, come scrittore e come lettore. So che tanti hanno abbandonato la lettura de “Alla ricerca del tempo perduto” e la cosa buffa è che ho atteso sino ai trent’anni per immergermi nelle sue pagine, prendendomi un anno intero per farlo, senza leggere nient’altro. Proust ha cambiato la mia visione della relazione dell’arte con la vita stessa che è ciò che riguarda la sua scrittura». A cosa servono i libri? Per lei la letteratura ha un valore universale? «A parer mio, la letteratura serve per resistere. La letteratura non lavora con l’informazione, quella spetta ai giornali, invece utilizza i sentimenti, le idee e il tempo, muovendosi con un ritmo lento, macinando concetti, spingendo il lettore anche a riflettere sul proprio posto nel mondo. La letteratura è marginale, lo sappiamo, proprio per questo può essere una forza alternativa, efficace per difendere una dimensione propria e personale». Come ha vissuto la pandemia? «Mi ha fatto riflettere. La distanza obbligatoria e l’astinenza del contatto mentre eravamo chiusi in casa con il conteggio dei malati che cresceva credo che abbiano avuto un impatto nella lettura del nostro tempo, proiettandoci in un tempo presente continuo, senza alcun futuro. Non credo che ciò avrà un effetto permanente sulle generazioni più giovani, dimenticheremo e andremo avanti. Tutti noi speravamo che la pandemia ci avrebbe resi migliori ma credo che non sia successo. Ed è un peccato».