Sono storie che cominciano a “raccontarsi” un secolo fa e che sembrano arrivare da un altro mondo (siciliano) lontanissimo – nel tempo e nello spazio – e che pure risuonano talmente come nostre radici autentiche che non possiamo fare a meno di riconoscere che in qualche modo riescano a permeare ancora il nostro presente così diverso. E scrivo “raccontarsi” perché fatti (si comincia e si finisce con due suicidi, in un monologo ci vuole coraggio) e persone nello spettacolo “Antropolaroid”, pur mediati da un grande attore e autore qual è Tindaro Granata, sembrano autogenerarsi, tanto mantengono spontaneità e ancor più verità, dolcezza e crudeltà, amore e violenza, semplicità di sentimenti e complicazioni di comportamenti, onestà atavica e ombre mafiose.
In questo teatro di narrazione, che parte dai cunti di una volta nelle campagne attorno al braciere, il messinese (di Tindari) Granata è un maestro raffinato e mostruoso (dal latino “monstrum”, ovvero prodigioso, eccezionale). Perché racconta e interpreta una miriade di personaggi tra bisnonni, nonni, nonne, zie, zii, entra ed esce con pochi gesti, con una maglietta che, quando occorre, diventa velo, e con un uso della voce, o meglio delle voci (maschili femminili infantili anziane), che inghiotte chi lo ascolta in una specie di buco nero del passato.
Ma poi, superato lo stretto passaggio del ricordo antico, rivela la luminosità di un qualcosa che tutti abbiamo conservato dentro, anche se non lo viviamo più: il legame con la natura e con la socialità familiare. Esemplare, irresistibile e significativa la zia con la gamba “offesa” che insegna il valzer alla nipote.
“Antropolaroid”, come dice il titolo, è scavo antropologico e scatto fotografico di immagini e parole dialettali perdute e, grazie alle qualità di Granata, capace di “dominare” il pubblico, è anche spettacolo puro, che trascina nella commozione e nella risata, talvolta in una tragica paura, quando i fatti si fanno oscuri. Insomma non lascia mai indifferenti. E, infatti, sta festeggiando il suo decennale, vissuto in ogni parte d’Italia, raccogliendo un immutato successo, come è accaduto anche a Lecco nella stagione di “Tracciafuori”, in una replica costellata da applausi a scena aperta e da un’interminabile standing ovation finale.
Lui, Tindaro, ormai arrivato a recitare e a insegnare al Piccolo Teatro di Milano, è rimasto sempre legatissimo a questo suo primo superpremiato spettacolo anche perché rappresenta la parte di sé che è partita da una Sicilia di contadini (i nonni che lo hanno cresciuto), che aveva i valori di una cultura della terra profonda e vera. Quella da cui lui è “scappato” inseguendo il sogno di fare l’attore e quella in cui, nello stesso tempo, è “rimasto”, legato alle parti migliori e più sane della tradizione.
Generosamente in questa tournée Granata fa debuttare i suoi allievi del Piccolo, ognuno impegnato in suo personale cunto, scritto e interpretato. A Lecco è stata la volta della promettente Aurora Spreafico.
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