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Voce del verbo scrivere: Mariano Sabatini e il suo "manuale" INTERVISTA

Scrittura ma anche una narrazione del piacere della pagina attraverso decine di testimonianze d'autore

Attenzione, scrittore al lavoro. Ernest Hemingway

S’impara a scrivere o si nasce scrittori? Ed è vera la storia dell’ispirazione? Forse l’ispirazione serve per cominciare, la disciplina per condurre a termine. Angoscia della pagina bianca, dell’incipit, della trama, del titolo, della pubblicazione. E, invece, quando le storie si affollano, quale raccontare per prima? Poi ci sono i rituali, le manie, i metodi, tanti quanti sono gli scrittori, più di cento, interpellati da Mariano Sabatini in “Scrivere è l’infinito. Metodi, rituali, manie dei grandi narratori” (Vallecchi), una «specie di corso di scrittura tascabile, un repertorio di esperienze narrative composito ed eterogeneo» che allarga e riorganizza i due precedenti “Trucchi d’autore” e “Altri trucchi d’autore” (Nutrimenti), con materiali raccolti in periodi diversi.

«Per questo libro ho immaginato una struttura più narrativa, organizzata per argomenti peculiari: la disciplina, l’ispirazione, il rapporto con lo stile, con la lingua, la correzione delle bozze, la scelta del titolo… », con le testimonianze degli scrittori che scorrono come un racconto, una conversazione plurale, tra citazioni colte e riferimenti ad altri scrittori ancora. Ma di una cosa è convinto Mariano Sabatini, scrittore (“L’inganno dell’ippocastano” e “Primo venne Caino”, per Salani e, da poco in libreria la fiaba “Una cagnolina non vola mica”, per Chiaredizioni), giornalista, saggista (“È la TV Bellezza”, “L’Italia s’è mesta”), autore di programmi radiofonici e televisivi (tra gli altri, “Tappeto volante” e “Parola mia”): «Scrivere è, indubitabilmente, l’infinito del verbo che denomina la mera azione del trasferire su carta i pensieri, le idee, i personaggi, le storie… Ma allo stesso tempo scrivere è anche tendere all’infinito. Perdersi nell’infinito».

“Del leggere e dell’insopprimibile amore per i libri”. È il titolo di uno dei capitoli, e quindi come è nato questo libro?
«Dalla mia voglia di diventare scrittore, scoppiata quando ero solo un lettore, molti anni fa. Quando poi ho cominciato a fare il giornalista e a pubblicare libri di vario genere, mi definivano scrittore ma per me l’approdo era scrivere storie. Fare il narratore. Così ho iniziato a chiedere ai grandi narratori come ci fossero riusciti, e in oltre 15 anni ho messo insieme un materiale considerevole. Da cui ho tratto questo libro utile a chi voglia assorbire lo stato d’animo di chi vive raccontando».

Quindi è anche un libro sulla lettura, come appare chiaro dalla tua intervista in calce a Elda Lanza.
«Non si può scrivere senza leggere, tanto, di tutto, in modo appassionato. E quasi tutti gli scrittori che ho interpellato concordano. Ho chiuso il libro con Elda Lanza perché le devo il mio esordio come narratore. Lei mi faceva leggere i suoi dattiloscritti prima di inviarli a Salani, che poi sarebbe diventato anche il mio editore. A furia di dirle: aggiusta qui, sistema lì, taglia là, questo personaggio funziona, questo meno… ho cominciato a dirmi che forse potevo farlo anche io. Così, non avendo scheletri narrativi sul desktop, ho cominciato a scrivere “L’inganno dell’ippocastano” e l’ho inviato. È andata bene. Ho vinto il premio Flaiano e sono stato tradotto nei paesi di lingua francese».

Il titolo, che apre a “interminati spazi”, gioca ovviamente sulla parola infinito, modo verbale, aggettivo e sostantivo, appunto.
«Interminati spazi, ma non profondissima quiete. Perché scrivere è un lavoro defatigante, devi scovare quella parola, non un'altra, devi dire una certa cosa in un preciso modo, creare un personaggio al meglio. Tutto ciò può sgomentare. La pagina bianca poi può diventare uno dei peggiori incubi, da cui persino Gabriel García Márquez non era immune».

Scrittori/scrittrici italiani e stranieri, vivi e morti, più o meno conosciuti. Quale criterio hai seguito per riunirli?
«L’assenza di criterio, nel senso che ho cercato tutti quelli che si muovevano sulla scena editoriale. Nomi diversi, che vanno dalla campionessa delle vendite Sveva Casati Modignani a romanzieri raffinati come Rosetta Loy, Ariase Barretta o Fabrizia Ramondino. Senza snobismi, senza discriminazioni, anche se mi sono accorto che è molto forte la presenza delle donne. Tra le ultime che ho cercato Daria Bignardi, Licia Troisi, Lisa Ginzburg, Barbara Baraldi, Gabriella Genisi… Tra i più generosi Maurizio de Giovanni, che, peraltro, mi ha tenuto a battesimo come romanziere».

Hai potuto contare sulla disponibilità di molti autori. Ma c’è stato qualcuno che si è rifiutato di farlo?
«Diversi. Per fortuna ci sono tanti altri nomi di primissima grandezza. Da Lansdale a Carofiglio, da Cunningham alla Ferrante, e via dicendo».

Hai insistito sia sul fatto che scrivere è un lavoro sia sulla certezza che per scrivere bisogna essere dei lettori.
«Lo dicevo prima, si nasce lettori e forse si diventa scrittori. Ma non si può scrivere senza leggere o aver letto. Sarebbe come un chirurgo toracico che non conoscesse l’anatomia umana. Leggere aiuta ad acquisire la giusta strumentazione, il senso della storia, il gusto del racconto. Scrivere è un lavoro e deve rimanere tale, al di là delle false mitizzazioni. E invece troppi editori lestofanti, poco più che tipografi, si approfittano dell’ingenuità appassionata degli aspiranti scrittori. Mai pagare per pubblicare, meglio allora un onesto self publishing».

Ma l’ispirazione, come dici, a volte è un atto di forza. In che senso?
«Mi riferivo all’opera di persuasione di Raffaella, mia amica di una vita, che mi ha convinto a scrivere una fiaba per il figlio. Si intitola “Una cagnolina non vola mica” ed è uscita per Chiaredizioni. In ogni caso io ho dovuto costringermi a scrivere sia “L’inganno dell’ippocastano” sia “Primo venne Caino”. Ogni volta devo convincermi di essere in grado. E così sarà per il nuovo romanzo. Ecco perché se potessi, anziché scrivere, passerei la vita a leggere».

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