Non c’è solo il Covid attorno a noi. Attenzione a considerarlo il problema unico. Perché tanto altro è rimasto, a farci pessima compagnia. A cominciare dal razzismo, come ci ricorda, in modo duro e nello stesso tempo “soffice”, Saverio La Ruina con il suo nuovo testo “Saverio e Chadli vs Mario a Saleh”, che ha debuttato in prima nazionale nel Teatro Menotti, appuntamento iniziale di due intere settimane dedicate alla drammaturgia dell’ultrapremiato autore, attore e regista di Castrovillari.
È necessaria una premessa: questo spettacolo nasce dalle “ceneri” di un altro precedente, “Mario e Saleh”, andato in scena due anni fa, in cui l’attore Chadli Aloui aveva cambiato il finale senza avvertire La Ruina (una cosa, per intenderci, alla Morgan e Bugo). La reazione di La Ruina è stata completamente diversa da quella di Bugo. Si è messo dalla parte delle ragioni di Aloui e ha scritto un nuovo testo, in cui le inquietudini di un giovane arabo-italiano trovano larga espressione. E che il problema razzismo sia lì sul tavolo, al centro del nostro menù quotidiano, ce lo conferma anche la mancata presenza allo spettacolo di Aloui, l’attore (ma pure istruttore sportivo e attivista per i diritti umani) palermitano di origine tunisina, che è diventato coprotagonista, anche autorale, fin dal titolo.
Lui, sorvegliato speciale per un anno proprio a causa delle sue battaglie sociali, qualche giorno fa è stato arrestato a Palermo (proprio nell’occasione in cui avrebbe dovuto avere il permesso per andare a Milano) e poi rilasciato con obbligo di firma, dopo essere stato rinviato a giudizio. Ma Aloui è comunque presente in teatro perché una parte fondamentale della messinscena è data dalle voci registrate in conversazioni private fra i due attori (ecco il perché del titolo), anche se sul palcoscenico è stato sostituito coraggiosamente da Alex Cendron.
Non è questa la sede per poter criticare o meno certe decisioni, deciderà il magistrato. Qui bisogna dire che il tema scelto da La Ruina è una ferita aperta in tutta la nostra comunità e che non è certo ignorandolo che può essere risolto. Il testo fa emergere tutti i luoghi comuni in cui, partendo dalla differenza di religione - una sorta di marchio che annulla la singolarità di ogni persona - si determina un’incomprensione che si autoalimenta. Il punto è chiaro subito. Basta citare un dialogo iniziale tra i due personaggi, Mario e Saleh, costretti a convivere in una tenda dopo un terremoto. «M. Oh, ma voi ci provate sempre. S. Voi chi? M. Voi, voi musulmani. S. Vuoi dire che io sono musulmano come tu sei italiano? M. Perché, non è così? S. Pensavo che l’Islam fosse una religione, non una cittadinanza». E più avanti Saleh aggiunge: «Ancora voi? Ma uno deve portare per forza il peso di un miliardo e seicento milioni di persone sulle spalle?».
Una separazione netta che è nata in quel tragicamente famoso 11 settembre, in cui «il mondo si è diviso tra noi e voi». La Ruina (sempre bravo come attore, con una gestualità performante anche quando è controllata, che lo rende unico) non si ferma certo a cose che sappiamo tutti, ma, inserendo le registrazioni di Chadli ci porta in presa diretta dall’altra parte del voi, in quel voi che noi occidentali siamo per gli altri. Così in scena trovano posto le ragioni e la rabbia, le presunzioni e le reazioni di ambedue le parti. Non solo, ma la sostituzione improvvisa di Chadli, fatta volutamente con un attore biondo e con gli occhi azzurri, determina, nelle intenzioni di La Ruina, una sorta di spaesamento che aiuti a capire come e perché l’attore arabo contesta il suo personaggio, ritenuto troppo propenso a giustificarsi, in sostanza diverso da lui, orgogliosamente arabo.
Alla fine, la caduta della tenda prima del buio (scene e costumi di Mela Dell’Erba), è un invito a una ricostruzione dei rapporti umani e sociali, così come si fa con le case dopo un terremoto.
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