Lunedì 18 Novembre 2024

L'orizzonte della letteratura: a colloquio con Alessandro Notarstefano sul suo ultimo romanzo

"Mani che disegnano". Maurits Cornelis Escher, 1948, litografia

Raccontare un non-luogo, che sia tutti i luoghi possibili, tramite la storia di un uomo, un fotoreporter, che rivive la propria vita – eccolo ventenne, adulto e padre, infine anziano – mentre il tempo si frantuma. E tutto, insieme, riaccade. “L’orizzonte degli eventi” (Nardini editore, Firenze) è il terzo romanzo – dopo “Adelaide” (1987) e “Tradito dalla matita” (1994) – del sessantunenne Alessandro Notarstefano, giornalista messinese e direttore responsabile di Gazzetta del Sud. È un’opera narrativa ambiziosa e di ampio respiro che si discosta – «pur con rispetto», chiarisce l’autore – dal contesto mainstream dominante fatto di commissari e poliziotti, portando in pagina una prosa ricercata e fluida, una colta riflessione sulla condizione umana, il senso della vita e l’ossessione della morte. Lungo le pagine seguiamo il protagonista accanto alle sette donne importanti della sua vita e, al contempo, alle prese con il concetto di paternità, mentre la passione per la fotografia diventa metafora puntuale di una ricerca che si conclude nell’ultima pagina. Forse... Direttore, che cosa differenzia la scrittura giornalistica da quella narrativa? «Il giornalista non può che utilizzare parole trasparenti, inequivoche, sempre aderenti alla realtà delle cose, mentre la parola letteraria può permettersi talora d’essere ambigua, d’avventurarsi – pure – in accostamenti arditi: ebbene, da questo e quel corto circuito nasce – appunto – lo spazio letterario di cui parla Maurice Blanchot: lì il senso è come rifondato, si... (re)inaugura la comprensione delle cose. Ecco la letteratura come luogo di frammenti. Il lettore è chiamato a ricucirli, potrà persino costruirci su altro senso. L’opera aperta di Eco». Cosa l’ha spinta a rimettersi in discussione, tornando in libreria con il suo terzo romanzo? «Quasi alla soglia dei 60 anni mi sono sentito in debito – o forse... in credito – con me stesso e ho voluto riaprire il mio personale “discorso” con la letteratura. Doveva necessariamente essere un progetto ambizioso; anziché scommettere su chissà quale aggrovigliata trama, fra thriller e noir, ho scelto di raccontare la storia di un “uomo qualsiasi”, muovendomi fra infanzia e disillusioni, lacrime e gioie, amori e sessualità. Costante rumore di fondo l’idea insostenibile della morte, la sua immanenza». Un passo del libro: «Voglio – a occhi aperti, a occhi chiusi – essere in ogni non so cosa dello spazio e del tempo […], tutti gli altri, inquietante moltitudine, sembrano davvero confidare in un avvenire […], non s’accorgono che c’è solo un fortuito imperscrutabile divenire in tondo, tutto ciò che abbiamo». Ragionare sul tempo, rompere la linearità della narrazione: era soprattutto questa la sua sfida? «Esattamente. “L’orizzonte degli eventi” non è un romanzo a struttura lineare ma un piano in cui tutto succede contestualmente – eccola, la mia ambizione –, e così la vita del ragazzo, dell’uomo adulto e dell’anziano si sfiorano, si incrociano, si scontrano sulla pagina. E tutto ciò per cogliere, forse con più efficacia, il senso ultimo della condizione umana». Un romanzo dichiaratamente ambizioso in un tempo dominato dalla narrazione d’intrattenimento. Una lucida follia? «Considero folle, semmai, puntare quasi sempre su trame fin troppo simili. Nutro il massimo rispetto per taluni autori di genere, ma la storia della letteratura è scandita da alcuni capolavori – penso a giganti come Dostoevskij, Proust, ma anche a Perec – che hanno voluto scandagliare la condizione umana, ragionando sul senso della morte, affrontando l’abisso, osando anche guardarlo negli occhi. Questa è la mia idea di letteratura, ed è ciò che mi ha spinto a tornare a scrivere». Il suo protagonista è un fotoreporter. La ricerca di linee geometriche e il contrasto luce/ombra lo rapiscono anche nei momenti erotici. Perché? «Quella ricerca è una necessità, non un vezzo. Il protagonista insegue ossessivamente il significato della propria vita. Cerca possibili rassicuranti “coordinate” (talvolta le trova) entro cui sopravvivere, ma non riesce a trattenerne alcuna. Le sue foto, in qualche misura, testimoniano la sua esistenza, che sarebbe altrimenti troppo volatile. In ogni suo gesto, parola, immagine e azione, d’altra parte, s’avverte il “peccato originale” che è nel dover-morire. Questa consapevolezza crea nel protagonista un irredimibile disincanto. È un’avventura effimera, la vita, e lui avverte un fondo amaro pure nelle gioie». Sono sette le donne “al fianco” del protagonista del romanzo (Muriel, Amina, Ester, Leonor, Miriam, Noemi, Christina) e una prosa che indugia sui momenti di passione. Qualcuno potrebbe cogliervi machismo, in un panorama che è invece... politicamente corretto. «Mi sembrerebbe un’analisi superficiale. Siamo infatti agli antipodi del machismo. Rapportandosi a ciascuna donna, il protagonista conserva quella cosa bellissima che è lo stupore. Davanti alla Donna, davanti a se stesso quand’è con “lei”, davanti alla Bellezza. Quanto al “torbido” e al “perverso”, fanno parte – nel libro – d’un gioco alla pari: c’è piena complicità tra il protagonista e questa e quella donna. Sono incontri, intensi: certo, talvolta c’è condivisione, in altri frangenti prevalgono gli egoismi, ma – più spesso – tra l’intimità dei corpi balenano palpiti e sentimenti che vengono fuori, cristallini, dal profondo dell’anima. Sia che si tratti d’un amore giovane, sia quando viene descritta un’improvvisa tenera intesa fra anziani. Sì, là dove tutto è più straziante, già di suo, là forse – davvero – l’erotismo parla il linguaggio della morte». Direttore, che significa uscire dalla redazione e andare incontro a un altro tipo di editoria? «L’editoria libraria è in sofferenza, e nei prossimi giorni dovrà affrontare un notevole aumento del costo della carta. Sarà forse impossibile non penalizzare i lettori. Il timore è che, per rischiar meno, s’adagi ancor più su libri di genere, spesso e volentieri un po’ troppo... commerciali. Peccato che ci sia un pubblico che non chiede solo svago, ma pure riflessione. E giovani che amano la letteratura e chiedono di crescere. Un Paese che s’interroga sempre meno sulla vera essenza delle cose, tout court sulla vita umana, va inesorabilmente incontro a un imbarbarimento».

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