Con “Inchiostro simpatico” (Einaudi) Patrick Modiano esalta quel progetto-memoria che porta avanti da una vita, quasi raccogliendo, attraverso tutti i suoi romanzi, un ideale testimone proustiano. Romanzi, quelli di Modiano, che messi uno accanto all’altro somigliano a pezzi di un puzzle, tessere di un sorprendente affresco di una singola storia umana, ma anche della Storia, quella con la esse maiuscola, quella che certifica l’arrancare dell’umanità. All’inizio, si può anche rimanere un po’ spiazzati dal suo stile narrativo. Tutto sembra accatastato lì alla rinfusa, come se fossimo all’interno dello sgabuzzino di casa in cui ammassiamo le cose che non ci servono più. Per cui troviamo la descrizione di una cartolina ingiallita, oppure un biglietto del tram preso trent’anni fa, la ricevuta di un acquisto fatto in una località in cui avevamo perfino dimenticato d’essere stati, o ancora il passaggio davanti all’entrata di un albergo in cui tanto tempo addietro abbiamo pernottato. Poi però, ogni oggetto (ogni evento) acquista un senso. E noi lettori ci ritroviamo una storia per le mani, e che storia. Ci sentiamo coinvolti, tirati in ballo, trafitti. Così anche la semplice e breve vicenda di Jean Eyben – l’investigatore protagonista di “Inchiostro simpatico” (ma era stato così anche per il libro precedente, “Ricordi dormienti”) – ha il sapore prezioso del ritrovamento: questa volta è il fascicolo sulla scomparsa di Noëlle Lefebvre, fascicolo che Jean custodisce ancora, a destare le immagini di un passato che Jean stesso era il primo a credere di avere smarrito. Basta questo a lui per tornare indietro negli abissi della memoria, come «trasportato da una nuvola di malinconia», nella speranza di ritrovare quella donna misteriosa, per i vicoli di Parigi, fra indizi inattesi e pagine strappate da una vecchia e polverosa agenda. Spuntano date, orari di treni, indirizzi incompleti, numeri di telefono, ma anche versi di una poesia, nomi di luoghi e persone, cartoline, foto troppo scure. Modiano ci mette in guardia: liberatevi dei ricordi, finché potete, non metteteli come inutili souvenir su una mensola del soggiorno, ma, nello stesso tempo, riappropriatevene, fate che producano nuove emozioni. Ciò non significa che dobbiamo conservare i ricordi come se fossero documenti da tenere in fondo a un cassetto. Insomma la memoria, la Storia non servono a niente, quando sia noi – come singoli individui – che l’intera umanità continuiamo a commettere gli stessi errori. La memoria, la Storia, dunque, non ci insegnano niente, se noi continuiamo a perpetrare i medesimi errori, le stesse nefandezze, le stesse porcherie. Ecco perché la memoria non dev’essere intesa come rimpianto bensì come una sorta di “mnemotecnica”. L’unico sistema valido per rendere attiva la memoria, renderla utile, è quello di considerarla come una tecnica grazie alla quale rendere reattivo il nostro stato attenzionale. Non solo più vivo, ma anche più sensibile. «Chi vuol ricordare – ha scritto Maurice Blanchot – deve affidarsi all’oblio, al rischio dell’oblio assoluto e a quel felice caso che diventa allora il ricordo». Un primo passo su questa strada è, per l’appunto, leggere un libro di Patrick Modiano. Nel 2014, quando lo premiarono col Nobel, gli accademici di Svezia scrissero nella motivazione: «Per l’arte della memoria con la quale ha evocato il destino umano più inafferrabile e fatto scoprire il mondo vinto sotto l’occupazione». È questo che fa, in fondo, Modiano in ogni suo libro, come un artigiano della parola e del racconto: tenta di «decifrare il passato, o forse l’esistenza nella sua totalità».