Appena pubblicato, entra subito in classifica “La casa senza ricordi”, il nuovo thriller firmato da Donato Carrisi, edito da Longanesi. Il romanziere bestseller pugliese richiama in azione Pietro Gerber, il miglior ipnotista di Firenze, e tesse una trama a tinte fosche che comincia con il miracoloso ritrovamento di un bambino, Nico, in un bosco. Qualcuno si è preso cura di lui e l’ha nutrito ma lui tace e si trincera nel silenzio della mente. Infine, quando quella porta si aprirà e Pietro riuscirà ad aver accesso ai ricordi rimossi, si scatenerà una caccia fra illusioni e inganni in cui nulla è come sembra.
Dopo i successi raccolti con i suoi romanzi – fra i quali “Il suggeritore” con cui vinse il Premio Bancarella – anno dopo anno il 48enne Carrisi è fra gli autori più attesi, uno dei pochi italiani con un allure internazionale e dopo aver firmato anche la regia de “La ragazza nella nebbia” (2017) e “L’uomo nel labirinto” (2019) è pronto a rilanciare la sfida col suo prossimo film, “Io sono l’abisso”, in uscita l’anno prossimo. «A volte – afferma l’autore in questa intervista per l’uscita del romanzo – persino la mia stessa fantasia mi spaventa».
Carrisi, perché si scrivono le storie?
«Io scrivo una storia prima di tutto per raccontarla a me stesso, e giudico in modo inflessibile il mio operato. Quando ho scritto il mio primo spettacolo teatrale avevo 19 anni, ho creato una commedia partendo da zero e da allora, per ogni progetto, punto tutto sulla voglia di divertirmi, stupirmi ed emozionarmi. Sono le emozioni il mio ingrediente segreto».
Nei suoi romanzi la mente e i suoi misteri sono al centro degli intrecci. È così anche nella “Casa delle voci”?
«Sì, mi piace raccontare l’infanzia degli adulti. Chi siamo stati, da piccoli? L’innesco è stato quello di richiamare la figura dell’orco, o del lupo o dell’uomo nero, ciò che i nostri genitori minacciavano che sarebbe arrivato, per mettere fine ai nostri capricci. E stavolta mi sono chiesto: ma se una volta diventati grandi, incontrassimo questa figura, cosa accadrebbe?».
Pietro Gerber è un celebre ipnotista, capace di entrare nei meandri delle menti traumatizzate dei bambini. Lei è mai stato ipnotizzato?
«Sì, è successo. La prima volta è accaduto a Milano, in un pomeriggio di fine estate. Una signora di bell’aspetto che mi ha fatto stendere sul suo lettino e io con tutti i miei dubbi e gli occhi chiusi ero certo di avere il pieno controllo della situazione. Dopo mezz’ora mi ha risvegliato, mi sono guardato intorno… ed era già tutto buio. Era già scesa la sera, sono stato ipnotizzato tre ore».
Ci sono stereotipi da smontare?
«Tanti. Innanzitutto, non si tratta di perdere il controllo ma di compiere un profondo viaggio dentro la nostra stessa mente, smarrendo il contatto con la realtà che ci circonda. L’ipnotismo mi affascina e mi atterrisce nello stesso momento, è come lanciarsi con il paracadute: l’emozione di lasciarsi andare per superare ogni limite, sperando che il paracaduta si apra. Ecco, l’ipnosi apre delle porte, rivela delle verità ma ciò che emerge può essere liberatorio o, al contrario, creare uno spazio in cui si viene rinchiusi».
Che rapporto ha con la scrittura?
«Massimo controllo, so benissimo da dove parto e dove andrò a finire. Ogni tanto, però, può esserci un incontro inatteso lungo la via…».
Da genitore raccontare infanzie traumatizzate e figli perduti, cosa significa?
«Non faccio intrattenimento ma cerco di trarre qualcosa da ciò che narro, ne ho bisogno. Credo che la scrittura mi migliori, dandomi anche una prospettiva più ampia della vita».
Famiglie spezzate e traumi. La società dissimula i traumi derivanti dalla vita domestica?
«Certo. La famiglia è un luogo sacro e anche un posto segreto. È molto difficile riuscire a rompere il riserbo e capire cosa accade dentro le quattro mura. Provare a farlo accende la mia fantasia di narratore».
Carrisi, le fa paura scrutare dentro l’abisso della mente fra nevrosi e fobie?
«Dannatamente. Se non ne avessi paura ne sarei già stato inghiottito».
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