Del travaglio ma anche della necessità di sgravarsi della parola, Gianni Celati, uno dei più grandi intellettuali del Novecento, morto a 84 anni ieri a Brighton in Inghilterra, dove viveva da circa trent’anni, è stato interprete eccezionale e forse irripetibile nella sua polimorfica genialità. Scrittore, traduttore, critico letterario e documentarista (appassionato cinefilo, ha girato film documentari come “Strada provinciale delle anime” e “Case sparse. Visioni di case che crollano”), viaggiatore che amava abbandonarsi ai luoghi, ma pure inventarli, postmoderno nella sua cifra stilistica non legata al tempo e ai generi letterari, nato a Sondrio nel 1937, Celati è giunto «alla sua foce», come scriveva nei racconti d’osservazione “Verso la foce” (Feltrinelli, 1989 e 2018), un diario di viaggio per un progetto di lavoro svolto con quattro fotografi, tra cui Luigi Ghirri, che aveva come oggetto il paesaggio italiano.
E in cui la pulsione del suo anarchico viaggiare, dalle campagne cremonesi nei giorni successivi allo scoppio della centrale nucleare di Cernobyl, alle terre della grande bonifica ferrarese, e fino alla foce del Po, l’attitudine al colpo d’occhio e all’incontro improbabile diventava un modo di guardare il mondo e intendere il reale, pure quello desolato dei capannoni e dei centri commerciali di periferia.
«Ogni osservazione – scriveva – ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicino alla nostra morte; ci porta ad essere meno separati da noi stessi».
Ma è proprio il camminare che dava senso alle parole, e per lui, nomade della letteratura, come lo ha definito Franco Marcoaldi, «chiamare le cose perché restino con te fino all'ultimo», salvare la parola dalla deriva dell’insignificanza voleva dire rappresentarsi nell’atto stesso della scrittura.
Che sin dal suo esordio, nel 1971, con il romanzo “Comiche”, pubblicato da Einaudi (e ora da Quodlibet, 2021) su proposta di Italo Calvino, una sorta di cronaca dal manicomio di un anziano, non ha mai abdicato alla libertà di parola, anche quando la parola nella finitezza della scrittura diventa eretica o impopolare perché troppo colta e non commerciale. Il telos, lo scopo di una storia è proprio la scrittura e dunque nelle sue peregrinazioni letterarie, ulissiache e joyciane (si era laureato a Bologna con una tesi su Joyce e a Joyce era tornato completando nel 2013 la traduzione di “Ulisse”, una camminata faticosa che lo aveva molto provato), Celati poteva passare dal respiro favolistico di “Parlamenti buffi” (Feltrinelli, 1989, premio Mondello), tre racconti avventurosi nel solco della colta letteratura comico-realistica del Ruzante e di Folengo, al reportage “Avventure in Africa” (Feltrinelli, 1998, premio Comisso), in cui lo sguardo disincantato del narratore-turista scrive-fotografa il mondo nel suo viaggio musiliano, a “Narratori delle pianure” (Feltrinelli, 1985 e 2018, premi Cinque Scole e Grinzane Cavour), trenta racconti-parabole di luoghi quotidiani (le rive del Po) e insieme invisibili, straniati, a mostrare che nel racconto Celati ci entra come in una casa, fermandosi dove gli piace.
Il racconto, diceva Calvino, è «un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo» e che a Celati piacesse, alla maniera di Carver, «il salto rapido del racconto», lo si capisce sia da “Cinema naturale” (Feltrinelli, 2003), racconti «scritti nell’arco di vent’anni, poi riscritti a lungo – diceva – per tenermi occupato e vedere che cosa succede...», con studenti e girovaghi e gente che si gioca la vita dietro a ossessioni, sia da “Vite di pascolanti” (Nottetempo, 2006, premio Viareggio), tre racconti che ruotano intorno a liceali di provincia che “pascolano” di notte per la città, tra noia e incontri, con la certezza di essere lì, un corpo nello spazio per il quale l’inciampo in una parola o in un gesto qualsiasi può significare indifferentemente la vincita o la perdita.
Ma per chi, come lui, era un baudelairiano flâneur della letteratura, pure la distesa ampia del romanzo rappresentava una “pianura in cui perdersi”, proprio come i bambini pendolari del racconto di “Narratori delle pianure”, poi diventato un testo autonomo, manifesto metonimico della sua poetica. Ecco, allora, “La banda dei sospiri. Romanzo d’infanzia” (Einaudi, 1976, Feltrinelli, 1998), nato dall’amore per i fumetti mentre lo scrittore si trovava negli Stati Uniti e abitava in un paesino assieme a due irlandesi, un ebreo, un giapponese, due americani e un indiano; vi si narrano le avventure picaresche di Garibaldi, un ragazzo con un padre nevrastenico e un fratello “disgraziato”, lettore onnivoro che vuole sempre raccontargli storie.
E “Fata Morgana” (Feltrinelli, 2005, premi Flaiano e Napoli), romanzo dalle suggestioni borgesianedi antropologia fantastica con una storia-cornice che ne racchiude altre extravaganti, misteriose e a tratti allucinate. Ogni viaggio letterario contiene in sé una parte notturna e “Conversazioni del vento volatore” (Quodlibet, 2011), è una raccolta di conversazioni sulla vita, sullo scrivere, su incontri e altre voci e altri orizzonti per le strade del mondo (dall’Africa di Conrad al BritishMuseum fino a un pianeta abitato da alieni, con il deserto come sfondo, inteso come spazio da riempire con l’immaginazione), ma un viaggio talora stordente, un corpo a corpo con la parola, era pure la traduzione dall’inglese nella quale si era occupato, tra le altre cose, di Melville con “Bartleby lo scrivano” (1991), di Stendhal con “La Certosa di Parma” (1993), di Swift con “I viaggi di Gulliver” (1997) e naturalmente di Joyce.
Il corpus narrativo di Celati è raccolto nel «Meridiano» “Romanzi, cronache e racconti”, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri (Mondadori 2016).
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