Costantemente connessa alla sua vera essenza, la donna vive in ogni istante della vita la specificità della sua natura, ripercorrendo sentieri già battuti, in un cammino a ritroso tra le generazioni che affonda le radici in quelle antenate di cui solo la storia del mito custodisce le tracce. In un continuo rimando tra vero e verosimile, storia e leggenda, emerge così un’immagine del femminile suprema e potente, origine della vita, da cui tutto nasce e a cui tutto torna.
È la Grande Dea, venerata sopra ogni cosa dal Paleolitico all’Età del Bronzo: incontrastata signora, di cui si possono rintracciare ancora oggi le ultime vestigia nei simboli di nascita, morte e resurrezione, nei rituali di fertilità e propiziazione che si trovano più o meno dissimulati in ogni società. Dalle dee greche come Atena e Afrodite, a eroine meno note come la nipponica Azume, dea dell’alba, o IxChel, la dea giaguaro della cultura Maya, fino alla sirena africana Oshun, ogni racconto divino contiene insegnamenti per incentivare il potere e la capacità taumaturgica delle donne, sulle orme delle famose antenate.
Così la nostra società occidentale, del progresso e della tecnologia, ma anche della pandemia e della guerra, trova oggi nella donna una via d’uscita al travaglio esistenziale, alla depressione e alla paura, una speranza di rinascita tra i fantasmi della malattia o della morte. Perché ogni donna, biologicamente e psicologicamente programmata per la vita, esprime nel suo relazionarsi una capacità di donare che sembra smentire la sua umana finitezza; una partecipazione di onnipotenza di cui non ha immediata consapevolezza, ma che vien fuori in circostanze particolarmente gravose.
Tenendo il filo del mito come strumento di comprensione profonda, è possibile delineare così una nuova psicologia del femminile basata sulle immagini che la donna, come tutta l’umanità, si porta dentro da oltre tremila anni. Immagini sempiterne, corrispondenti alle divinità greche, lontane dai modelli di femminilità imposti dal progresso, perché costruite sulle “differenze” tra i sessi e sulla diversità tra una donna e l’altra.
Infatti, qualsiasi nome porti, ogni donna sa essere, di volta in volta, Era, Demetra o Persefone: dee protettive, l’una fedele e moglie, l’altra nutrice e madre, la terza figlia e regina degli inferi. Ma anche Artemide, Atena o Estia, dee vergini, indipendenti e competitive, capaci di strategie e azioni maschili. Spesso identificata con Afrodite, dea della bellezza e dell’amore, ma anche della tentazione sensuale, la donna ha mantenuto attraverso i secoli la primitiva connotazione di “dea”, fino a quando l’intervento del patriarcato ha contaminato anche il mito, restituendo un’immagine del femminile “dicotomica”, intrappolata tra due estremi mutualmente escludentesi. Così la dea, deposta dal suo trono dal maschio signore e padrone, ha subito il pregiudizio della “ridefinizione” dell’identità, che alla forza ha opposto la fragilità e al potere il bisogno di protezione e la sottomissione. Non più dea del focolare o nutrice suprema, bensì madre sacrificata alla famiglia; non fanciulla degli inferi, ma ragazza in pericolo; non dea dell’amore, ma seduttrice insidiosa.
Liberarsi dalle dicotomie che imprigionano la vera identità rappresenta ancor oggi l’obiettivo principale di tutte le battaglie personali e sociali femminili.
In occasione della Giornata internazionale della donna è importante però sottolineare come, nonostante i pregiudizi e gli stereotipi ancora sul tappeto, sia ancora possibile ripristinare l’antica impronta divina, attraverso una rilettura di quei miti primitivi che avevano decretato la donna signora al di sopra di tutto.
Coniugando ottica femminista e suggestioni del pensiero junghiano, dalla fine degli anni 80 studi di psicologia sociale, confortati dalla pratica clinica di autorevoli psichiatri – tra cui la statunitense Jean Shinoda Bolen – hanno delineato una nuova psicologia del femminile che, identificando i modelli archetipi di matrice psicanalitica con i modelli mitologici, ha offerto alla donna nuove coordinate per costruire la propria autoconsapevolezza e reperire il tipo di dea che domina la sua personalità.
I miti greci, come tutte le favole e i racconti che si tramandano attraverso le generazioni, rappresentano infatti contenuti di grande valenza soggettiva, anello di verità che unisce l’esperienza individuale a quella di tutti, consentendo una comprensione intuitiva o intellettuale capace di indirizzare l’azione personale verso obiettivi di creatività e sano realismo. Così la donna, secondo la nuova ottica, è portata a stabilire diverse priorità personali sul modello della dea che domina la sua personalità, nonostante inglobi in sé tutti i tratti delle antiche antenate e partecipi a tutti gli archetipi dell’universo. Connettendosi al sé profondo e alle proprie immagini interne, ognuna potrà individuare le sue naturali inclinazioni e liberarsi dall’incasellamento in categorie del femminile imposte dall’esterno. Perché la Grande Dea, come Grande Madre, custode della vita, si può affrancare da Zeus che l’ha detronizzata, e liberarsi dalle catene della sottomissione.
Oggi, in tempo di pandemia e guerra, con la piaga della violenza sulla donna sempre aperta, l’Io femminile può essere sopraffatto dalle sollecitazioni di più dee in conflitto tra loro, che indicano sentieri e comportamenti contrastanti; ma una sola può essere quella che placa la lotta interiore, restituendo il dominio su se stessa. La “Dea Guerriera”, qualsiasi sia la sua sembianza o il suo nome, come l’archetipo interno della forza di cui tutte le donne sono state nei secoli esempio, può essere l’immagine interna cui fare riferimento nell’attuale periodo storico. Perché il mito, nel suo valore simbolico, è come un sogno che ricordiamo anche quando non ne comprendiamo il significato esatto; ma che, evocando ciò che è familiare, diventa quell’ “attuale non reale” da cui attingere per scoprire idee e desideri profondi, e riscrivere in modo diverso la propria favola.
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