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Il nuovo romanzo di Giorgia Tribuiani: se tuo padre morto da 40 anni si presenta alla tua porta...

Pensate a un miracolo. Non uno qualsiasi, “il” miracolo. Vostro padre, morto 40 anni fa, vi suona alla porta. Identico a come era – e ormai più giovane di voi – con addosso abiti vintage e una leggera confusione, e nessuna consapevolezza di essere un “ritornante”. Un ottantenne di quarant’anni, sradicato senza saperlo, rimesso dentro a un mondo dove non c’è spazio per lui. Comincia così, da questa miracolosa premessa, uno dei romanzi più interessanti degli ultimi tempi: “Padri”, appena uscito per Fazi a firma di Giorgia Tribuiani, docente di Scrittura creativa alla Bottega di Giulio Mozzi, al suo terzo romanzo dopo il sorprendente “Blu” (Fazi) dello scorso anno e il notevole esordio con “Guasti” (Voland, 2018).

Ma per quanto miracolosa sia la premessa, il romanzo non si occupa delle cause di quel prodigioso “ritorno” e nemmeno della sua fisionomia fantastica, che è solo l’innesco per una storia sulle difficoltà delle relazioni, sull’incomunicabilità e su quel dispositivo metafisico e fantastico (talora da horror) che è la famiglia.

«Cosa fa di un padre un padre perfetto? Di un padre un padre migliore?», se lo chiede Gaia, figlia e nipote dei due padri, Oscar e Diego, che da quel momento fatidico in cui si guardano, sulla soglia della casa che è stata di uno e poi dell’altro – senza cambiare il nome sul campanello ma cambiando ogni altro arredo, inclusi quelli interiori e intimi – danno il via a un meccanismo esatto e implacabile, una giostra di attrazioni e repulsioni, di agnizioni e rimozioni che coinvolge anche Clara, madre di Gaia e moglie insoddisfatta e colma di rancore di Oscar.

Un romanzo in cui ci si parla senza ascoltarsi, ci si guarda senza vedersi, si ride assieme restando tristi, e troppi abbracci – o addirittura semplici contatti – restano chiusi nella carne e nelle ossa, e dolgono come vecchi malanni. Perché, alla fine, forse l’oggetto fantastico è la capacità di starsi vicini e amarsi, o anche sono guardarsi, essere visti, perdonarsi, essere davvero – etimologicamente – compresi. Altro che resurrezione.

Grazie a una lingua rigorosa ma finemente evocativa e un abile uso del monologo interiore che s’intreccia al dialogo, la cifra della pagina sembra essere la dilatazione: tutto il non detto, il rimosso, sono la parte enorme dell’iceberg che sta sotto il pelo delle parole pronunciate davvero, sempre poche, esili, strozzate, interrotte. L’amore frustrato di Gaia, la guerra di posizione di Oscar e Clara, lo spaesamento di Diego, la fragilità di tutti sono i temi potenti che si contendono lo spazio della casa e lo spazio della relazione, materiale quanto il primo, affollato o nudo, scandito dalle ossessioni-compulsioni di Clara, dai segreti di Oscar e Diego, dai gesti di accudimento che Gaia – l’unica che dovrebbe rivendicarli per sé – è costretta a dispensare, con sollievo e con dolore, con applicazione e con impeto, a tutti gli altri.

Intravvediamo, dagli occhi stessi dei personaggi – dal momento che s’addentrano esattamente come noi lettori in un percorso sconosciuto e pieno di svolte – quanto sia faticoso costruire affetti, e quanto ingannevoli siano le distanze che crediamo di mettere, d’aver messo, di governare nei confronti degli altri, amati o disamati, vivi o morti che siano (le pareti sono porose, i morti possono tornare, i vivi andarsene, e si può vivere nel ricordo, nell’inganno, nel rimorso, nel rimosso).

Costruiranno qualcosa, Diego il risorto e Oscar il padre imperfetto e Clara la madre nevrotica e Gaia, la figlia e nipote su cui gravita tutto, perché le famiglie sono piramidi rovesciate e acuminate, e l’ultimo è trafitto e porta il peso e l’equilibrio incerto di tutto il resto? Sapranno guardarsi, ascoltarsi, com-prendersi? E noi, sapremo farci domande che ci rendano migliori? I bei libri, si sa, servono anche a questo.

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