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Tutte quelle anime, sostiene Tabucchi... un intellettuale necessario

Il suo eccezionale Pereira simbolo di un pensiero che resiste e si pone sempre in conflitto con il potere. L' "io egemone" e l'inquietudine nella traccia di Pessoa

Ciascun individuo è un "confederazione di anime". Antonio Tabucchi, scomparso nel 2012 a 69 anni

Ogni individuo non ha una sola anima ma una confederazione di anime su cui ne domina una, un “io egemone”. Talvolta può accadere che una di queste anime si rafforzi al punto da prendere il sopravvento e diventare un nuovo “io egemone”, determinando così una metamorfosi nella persona. Ne scaturisce un’inquietudine che potrebbe essere il preludio di un cambiamento esistenziale. Una nuova Libertà. L’ “io egemone” che impone alla confederazione delle anime la rotta.

Antonio Tabucchi, del quale ricorre il decennale dalla morte, offre una lettura dell’inquietudine di Antonio Pereira attraverso il dottor Cardoso, medico in una clinica talassoterapica di Parede, in Portogallo, che il responsabile della pagina culturale del “Lisboa” frequenta per curare la sua cardiopatia. Tra le pagine di “Sostiene Pereira”, il romanzo di maggior successo di Tabucchi, tradotto in 40 lingue, una teoria che è il senso stesso della vita: il conflitto nel prisma di anime che ciascuno ha in sé, il prevalere di una sulle altre, che ti rende “giusto” o “reo”, schierarti da una parte o da un’altra, individuare finanche un sentiero che può portare all’ignoto.

Dieci anni senza Antonio Tabucchi, scomparso nel 2012 a Lisbona appena sessantovenne. Con Umberto Eco l’intellettuale più apprezzato all’estero a cavallo tra i due secoli. Ma meno narciso di Eco, il quale, per “legato testamentario”, ordinò che per 10 anni dopo la sua morte non si organizzassero convegni o iniziative sulle sue opere.

Si apprezzavano, Eco e Tabucchi, e tuttavia tiravano di sciabola. Nel 1997 i due diedero vita a un acceso dibattito che divampò intorno a questa domanda: «Se la sua casa andasse a fuoco, un intellettuale come dovrebbe reagire all’incendio?». Ovvero, qual è il ruolo e l’utilità degli intellettuali nella nostra società? Per Eco il primo dovere degli intellettuali è di «star zitti quando non servono a niente. Un intellettuale dovrebbe limitarsi a essere un buon cittadino: se la sua casa brucia, alza il telefono e chiama i pompieri». L’intellettuale «non ha potere sull’immediato, non serve a spegnere le fiamme. Il lavoro di un intellettuale funziona nei tempi lunghi, offre uno sguardo inedito sul futuro, ma non può frenare la catastrofe del presente».

A Tabucchi le affermazioni del semiologo piemontese parvero inaccettabili e replicò con una lettera pubblica. «Certo – argomenta l’autore di “Requiem”, “Piazza Italia” e “Notturno indiano”, solo per indicare altre tre imperdibili opere – è vero che se la mia casa o quella del mio vicino va a fuoco, chiamo i pompieri, però mi sembra che questo non sia sufficiente perché io vorrei sapere dell’origine dell’incendio».

Da qui la convinzione di cosa fosse per Tabucchi la letteratura: «Una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia». In sé la letteratura è dunque “altro” ed è una forma particolare di conoscenza. “Io egemone” che emerge dalla confederazione delle anime e Conoscenza nell’intellettuale generano la ribellione, come in Antonio Pereira: giornalista vedovo, grasso, perennemente sudato, afflitto da molteplici fobie, che a Lisbona, sotto la dittatura di Salazar e con in Spagna la guerra civile, vede affidarsi la pagina della cultura di un quotidiano su cui non disturba il potere parlando di morti e di passato, finché diventano collaboratori Monteiro Rossi e la sua fidanzata, che riusciranno a costringerlo ad aprire gli occhi e uscire allo scoperto, denunciando sul giornale l’assassinio politico di un giovane rivoluzionario dissidente, prima di fuggire all’estero. Non senza un ultima passeggiata, chissà perché questa volta baldanzosa e beffarda, lui così grasso e sudato, sul viale principale di Lisbona, Rua Augusta.

«Dopo Pasolini – ha scritto Andrea Bajani – Tabucchi è stato l’ultimo scrittore a tirare il potere per la giacca, e a pagare per averlo fatto». Nel decennale dalla morte – e mentre l’Europa viene scossa e minata dai boati di una guerra – è giusto ricordare come questo straordinario intellettuale, docente universitario di Lingua e letteratura portoghese e scrittore di successo planetario, non si fosse mai sottratto dall’affrontare i gravi problemi della società italiana, su cui rifletteva dalla sua casa sulle colline di Lisbona. Cominciò difendendo i rom a Firenze, si battè contro i governi Berlusconi e il loro «degrado morale e politico», con prese di posizione pubbliche che gli costarono ostracismo e attacchi negli anni Novanta. Governi che erano per Tabucchi «un’emergenza democratica» da denunciare e combattere.

Tabucchi nacque a Pisa nel 1943 e, ventenne, scoprì a Parigi un volume firmato Álvaro de Campos, uno degli eteronimi di Fernando Pessoa, poeta portoghese che comincerà a sezionare facendone l’interesse centrale di tutta una vita di studioso. Con María José de Lancastre, divenuta sua moglie, ha tradotto in italiano molte opere di Pessoa, scritto saggi e una commedia su questo autore del “Libro dell’inquietudine”, capace di moltiplicarsi in tanti se stesso diversi: da qui la confederazione delle anime.

Contemporaneamente alle prime traduzioni e saggi, pubblica a metà anni Settanta anche le prime sue opere letterarie, “Piazza d’Italia” e “Il piccolo naviglio”, che raccontano la Toscana popolare e attraversata nel tempo da idee e moti in modi che sembrano risentire dell’influenza della narrativa sudamericana. Vengono poi negli anni Ottanta raccolte di raffinati racconti, tra cui “Donna di Porto Pim e altre storie” e “Notturno indiano”, appena ripubblicati assieme, da Sellerio, col titolo “Di viaggi e di sogni”; “Tristano muore” legato da un fil rouge a “Il tempo invecchia in fretta”. Sull’onda di “Sostiene Pereira” i suoi libri divennero best seller. Intanto arrivava “La testa perduta di Damasceno Monteiro” del 1997, secondo dei due suoi soli veri romanzi, che ci porta, con una storia gialla in bilico tra lucidità della ragione e sentimento del rovescio, in Portogallo, ma quello del dopo-Salazar, in cui imperano ancora ingiustizia, violenza e corruzione e sembra tanto assomigliare a quell’Italia che Tabucchi attacca e descrive nelle collaborazioni all’Unità, a Repubblica, al Fatto quotidiano. Dal 2018 tutti i suoi scritti si trovano raccolti in “Opere”, due volumi dei Meridiani Mondadori a cura di Paolo Mauri.

E un testamento morale: «Per me essere impegnati significa prima di tutto essere impegnati con se stessi, il che significa essere sinceri, specie in un’epoca che costringe a riflettere sul tempo, quello personale, interiore e lo sfuggire delle ore che si lega al problema della memoria, in un’epoca in cui – diceva – o ci si sente eterni o si vive solo il presente, senza senso del futuro».

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