Giovedì 21 Novembre 2024

LaChapelle e l’arte di credere nei miracoli in una personale al Mudec

«Certo che credo nei miracoli!». David LaChapelle, presente alla “prima visione” della sua mostra che si inaugura oggi al Mudec (rimarrà aperta fino all’11 settembre) non ha alcun dubbio. Il fotografo americano, 59 anni, considerato provocatore e blasfemo (ma non lo è assolutamente, forse è la sincerità che è diventata dissacrante), rinnova anche a Milano il suo atto di fede, conseguenza di un’accurata lettura delle Sacre Scritture, di un grande rispetto per la Natura e del voler mettere il cuore in primo piano rispetto alla mente. Anche se le notizie che arrivano dall’Ucraina lo hanno portato a una momentanea resa: «Non si può fare arte mentre c’è una guerra. È vero che per me il messaggio dell’arte è quello fondamentale per “risanare” il mondo, ma adesso ci vuole una pausa di riflessione, senza rinunciare a quello che ho fatto e che al Mudec è reso come meglio non sarebbe possibile». E aggiunge: «Le mie foto sono come un pezzo musicale che si ascolta la prima volta e poi ancora e ancora, gustandolo sempre di più. Io voglio far risuonare le mie immagini nei sentimenti della gente. Dopo la guerra dobbiamo riportare la luce nei cuori, ma ci vuole tempo». La personale “David LaChapelle. I Believe in Miracles” è prodotta da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE e promossa dal Comune di Milano-Cultura, è curata da Reiner Opoku e Denis Curti ed è presentata come «il risultato di un percorso di ricerca artistica che dura da una vita e che racconta un LaChapelle inedito e, per certi versi, inaspettato». Il percorso espositivo porta oltre l’icona pop, nata dopo la sua iniziale collaborazione con Andy Warhol, e fa superare l’obiezione che si sia “servito” delle celebrità del cinema, della moda e della canzone per ottenere una più facile attenzione e la conseguente notorietà. In realtà, a essere veicolato è un messaggio naturalistico e religioso, rispetto al quale le star sono un mezzo o, meglio, le interpreti, capaci di incarnare l’anima dell’uomo alle prese con tutte le storture del mondo. La vocazione religiosa delle sue immagini nasce quando negli anni Ottanta l’epidemia di Aids gli porta via il suo primo compagno e gli fa credere che anche per lui non ci sia scampo. «Ancora oggi – dice - sono meravigliato di essere vivo». Da lì la necessità di approfondire gli aspetti spirituali e, successivamente, di sostenere la difesa della natura, anche attraverso immagini da fine del mondo, che possano essere di monito, mentre gli approfondimenti sulla Sacra Famiglia, finiscono con il collegarsi con la grande pittura rinascimentale italiana, soprattutto quella di Michelangelo (la visione della Cappella Sistina ha cambiato il suo modo di fotografare) e di Botticelli. Le oltre 90 opere in mostra (grandi formati, installazioni site-specific e nuove produzioni, legate alla sua residenza nelle Hawaii) si intersecano a tema (e non con criterio cronologico), dando maggiore evidenza a quella che è una vera e propria “arte scenica”. Come un regista teatrale, LaChapelle dispone le idee e le persone: il suo obiettivo non è quello di cogliere la realtà, piuttosto schiera simboli e metafore, allo scopo di indagare a fondo l’interiorità umana e di sollecitare il “miracolo” di una nuova coscienza, che vada oltre il consumismo e riscopra il valore “sacro” della vita. Sono tutti concetti religiosi ed è pretestuoso scandalizzarsi per i nudi (peraltro legati alla pittura classica) o per la Madonna (una è Naomi Campbell) e l’Arcangelo neri, perché semmai l’unione di tutte le etnie del mondo è uno dei primi punti necessari per una vera rinascita. Così, se il famoso ritratto scattato a Warhol (l’ultima foto prima della morte) e l’installazione “Vox Populi” (con le immagini di tante star: da Pamela Anderson a Madonna, da Lady Gaga a David Bowie, da Marilyn Manson a Britney Spears ed Eminem) ribadiscono anche la sua vocazione “popular”, altre serie si dimostrano spettacolari e significative, intrise di una capacità particolarissima di realizzare foto. Per esempio, alcune immagini ispirate ai dipinti di Edward Hopper; penso a “Gas: Shell” e non solo: non sembri un’iperbole ma Hopper ci sembra più fotografico e La Chapelle più pittorico. E ha l’andamento del dipinto anche il gigantesco “Deluge” (Diluvio, 2006), ispirato da Michelangelo, dove l’ipotesi della fine del mondo è addolcita dalle mani protese di uomini e donne che vogliono aiutarsi. Ma le ipotesi apocalittiche si intrecciano con la contemporaneità, quando sono giganteschi hamburger e lattine di Coca Cola-asteroidi a minacciare la Terra. Un’altra opera di grandi dimensioni è “Seismic Shift” (Spostamento sismico, 2012): riproduce un campionario di oggetti che la corsa ai consumi fa diventare obsoleti in pochissimo tempo. Da qui poi le immagini di piante circondate da plastica, di ragazze (con bambini) davanti a case in rovina e anche la coppia di anziani che si bacia in uno scenario da day after. Nonostante sia del lontano 1999 rimane folgorante “Icarus” in cui un ragazzo con le ali staccate appare senza vita al centro di un “cimitero” di computer, monitor e tastiere. Suggestive tutte le immagini legate a Cristo, da un’ultima cena dei nostri tempi alla Passione, con Kim Kardashian come Maddalena, e una Pietà con Courtney Love. Ma, non dimentichiamo, La Chapelle crede ai miracoli: le ultime e inedite foto tornano alla natura delle Hawaii, con piante e luoghi che infondono speranza. Del resto lui è quello che ha immaginato Davide che fa una proposta di pace a Golia, una foto che sembra l’icona della necessità di questo nostro tempo. E crede nella famiglia e nell’amicizia: «Qui a Milano sono venuti mia sorella e tanti amici che appaiono nelle immagini in mostra. La guerra non può spegnere questi valori, bisogna continuare a credere nei miracoli».

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