Come si diventa baby-squillo? Quale costellazione familiare, quale condizione sociale, quale forma di abbandono, o di mancanza di sguardo, da parte di famiglie, istituzioni scolastiche, comunità sono necessari perché la vita d’una sedicenne qualsiasi cambi in un modo così drammatico? A queste domande risponde il nuovo romanzo di Mario Falcone, scrittore e sceneggiatore di lungo corso, messinese di ritorno (dopo anni di lavoro a Roma, che resta la sua seconda città assai amata, come pure traluce dal romanzo): “Manuela”, edito da Giulio Perrone. Nel titolo il nome della protagonista, un’adolescente figlia d’una media borghesia pesantemente toccata dalla crisi. La sua non è, non ancora, una “famiglia problematica”, ma certo è una collezione di fragilità. Anzi, una cosa che appare chiara e impietosa, tra le altre, nel romanzo, è la descrizione d’un mondo di adulti immaturi e adolescenziali, che abdicano a qualsiasi ruolo di educatori o guide. L’altra cosa impietosa – resa con un linguaggio oggettivo e crudo, da cronista, che pure, talora, non sa ritrarsi dall’empatia umana e persino paterna (il narratore, per quanto chirurgico, nasconde un fondo d’affetto reale per il suo personaggio) – è la consapevolezza d’un mondo regolato sulla mercificazione dei corpi e delle anime. Un capitalismo basico e atroce che permea qualsiasi rapporto: ridotta alla sua nuda essenza, la compravendita del sesso non è altro che questo. I soldi fanno girare tutto, nel “mondo di mezzo” di Manuela. E in tutti gli altri mondi. Ne abbiamo parlato con l’autore (che oggi incontrerà i suoi lettori alla libreria Bonanzinga). Chi è Manuela? «Manuela è una ragazzina di sedici anni, una liceale romana che si prostituisce per avere ciò che le sue compagne ricche possono permettersi e che lei, figlia di genitori divorziati piegati dalla crisi economica, non può. Manuela, però, è anche una provocazione, il Virgilio dei nostri tempi bui, la mappa delle nostre colpe e delle nostre contraddizioni. Il dark side di una società che si è votata anima e corpo alla corruzione». Ci sono fatti di cronaca, dietro la tua storia, e anche l'osservazione attenta d’un mondo: quel sottobosco di faccendieri e maneggioni, pusher del sabato sera e imprenditori del nulla, il mondo dei soldi facili che confina con la criminalità, dove si può cadere per ingenuità, per fatalità, per dolo altrui. Che ricerche hai fatto, che mondo è? «La genesi del romanzo risiede in un noto fatto di cronaca accaduto qualche anno fa a Roma nel quartiere bene dei Parioli, lo “scandalo delle baby squillo”. In realtà, tutto ciò è stato solo un pretesto per allargare il ragionamento sul potere corruttivo del denaro, formula universale per arruolare anime, coscienze e corpi da sfoggiare in un palcoscenico di agi, benefit, oggetti costosi, auto di lusso, vacanze in posti esclusivi, feste e droga di ogni tipo. Roma è il set ideale per la messinscena di questa commedia tragica e grottesca che lascia sul terreno più vittime di quanto s’immagini. Roma, ormai, è una città completamente divisa tra le tre grandi mafie; cunei infetti penetrati grazie anche alla sponda della malapolitica in tutti i settori produttivi. Oggi a Roma se non vuoi finanziare la criminalità organizzata devi scegliere bene anche il posto in cui decidi di andare a mangiare una pizza, o fare un apericena con gli amici. A Roma tutto è possibile, perché gli ambienti sono privi di compartimenti stagni e di conseguenza vivono in una costante contiguità che ha un solo collante: quello dei soldi. Per scrivere Manuela ho avuto l’opportunità, grazie a mirati aiuti esterni, di “gettare lo sguardo” dentro l’universo della prostituzione minorile (esiste anche quella maschile ed ha anche quella un florido giro di denaro). Ho lavorato sul campo come un vero cronista. Confesso che “sbobinare” tutto il materiale raccolto è stato la parte più difficile e dolorosa dell’intera operazione che poi mi ha portato alla stesura del romanzo». La cosa più dolorosa, ma anche interessante, nella vicenda di Manuela è quel capitalismo del corpo, da abbuffare di sesso e droga, da vendere e comprare, e la mercificazione di ogni rapporto. Ci sono momenti in cui sembra l'unico orizzonte, per quasi tutti i personaggi. «Presuntuosamente, quando penso a Manuela mi viene subito in mente un regista che adoro, Abel Ferrara, che ha sempre uno sguardo pieno di pietas nei confronti dei personaggi borderline, marci, corrotti, tutti in debito col loro personalissimo Dio, che sono sempre stati l’architrave della sua poetica e del suo cinema. Così come ne “Il cattivo tenente” tutto era in vendita e aveva un prezzo, anche in Manuela tutto ha un prezzo: da quello che riguarda le varie prestazioni sessuali che offre, all’aiuto che chiede per il padre; da una serata da terrazza pariolina a una festa cafonal nel villone abusivo. Qui l’elemento di congiunzione tra ambienti sulla carta distanti anni luce è la droga: la “bamba”, “er cocco”, “la bianca”, “la festa”. Da quando i criminali della banda della Magliana giravano col pippotto d’oro appeso al collo a oggi non è cambiato molto. Il Tevere è il fiume più inquinato di cocaina d’Europa. Anche più del Tamigi. Non sono io che traccio le coordinate del vizio e della corruzione. Io registro, riporto, annoto e consegno al lettore». Userò una parola impegnativa: c'è redenzione, nel mondo di Manuela? «Poca, come del resto è poca anche nella vita. Nella vicenda di Manuela c’è, ma costa cara, come qualunque cosa che dal buio ha il compito di riportarci alla luce. Prendere coscienza dei propri errori per Manuela è senza dubbio la prova più dura. Riuscirà a uscire indenne dalla tempesta che lei stessa con le sue scelte scellerate ha provocato? Nelle pagine finali del romanzo c’è la risposta». Il tuo narratore sembra scegliere una cifra di oggettività. ma non è così: con molta parsimonia, ma qui e lì si affaccia un giudizio etico. «Può essere e se è successo non me ne sono accorto. Il mio intento iniziale era quello di essere più distaccato possibile, il fatto è che scrivere Manuela mi è costato parecchio come uomo e come romanziere. Manuela è una ragazzina tosta, contorta, cinica, politicamente scorretta, ma confesso che le ho voluto molto bene». Quanto cinema c'è, nel romanzo? E come vivi la tua doppia natura di narratore per immagini e di pagina: c'è conflitto, cooperazione, fratellanza? Vorresti che questo romanzo diventasse un film o una serie? «Chi come me è anche uno sceneggiatore (dopo sei anni ho avuto la fortuna di essere nuovamente chiamato a scrivere un film per il cinema) ha il vantaggio di conoscere e saper utilizzare tutti i ferri del mestiere che l’arte dello storytelling mette a disposizione: sono stato avvantaggiato in tutti i passaggi della stesura del romanzo. Insomma, il doppio ruolo lo vivo benissimo anche perché mi offre una vasta gamma di opzioni narrative e punti di vista diversi. In più di un’occasione ho già detto che Manuela è un film pronto, ma per la natura stessa della storia lo vedrei come un film più adatto alla sala cinematografica, che al salotto di casa. Certo che vorrei diventasse un film, ma prima vorrei che il romanzo lo si leggesse nelle scuole, che lo leggessero i genitori e le coetanee di Manuela, alle quali è principalmente rivolto».