«Noi siamo inseriti in una macchina che è la macchina di Kronos: quando la vita è inserita all'interno del tempo e la percezione non è sull'oggi, ma su quello che è stato, un passato tremendo verso un futuro riparatore, la sofferenza è assicurata. Anche oggi. Non solo in Agamennone, ma anche oggi in ognuno di noi». Davide Livermore firma a Siracusa la sua terza regia al teatro greco con «Agamennone» – che aprirà la stagione di spettacoli classici dell’Inda il 17 maggio – , concludendo così l’Orestea, dopo Coefore ed Eumenidi, assieme lo scorso anno. E termina (il prossimo anno assicura che non sarà in scena nell’antica cavea) con l’inizio.
«Agamennone è un mondo sospeso perché stiamo aspettando una luce e stiamo aspettando il ritorno del re. Stiamo aspettando spero soprattutto l'esito di una guerra. E quindi quello che abbiamo è un mondo malato, dove tutto cerca di mantenersi. E quasi museificare la memoria delle cose, la memoria del passato. In attesa delle notizie di un futuro». Ed ancora: «Agamennone ha un antefatto ed è la causa scatenante di tutto, è il sacrificio di Ifigenia. Quindi questa integrità è una integrità sospesa, cioè il mondo era disfatto e devastato in Coefore Eumenidi. Nel finale di Agamennone, straordinario, straziante, cosa dice Clitennestra? Voi date la colpa a me. Ma la causa di tutto questo viene da lontano ed è la causa che ha messo Agamennone stesso uccidendo la figlia che io ho generato. Non è il primo anello di una catena. Noi siamo già all'interno della catena con Agamennone: stiamo parlando di una catena di sangue infinita che deve essere spezzata».
E oggi che le città crollano veramente sotto i nostri occhi, Eschilo ci dice qualcosa?
«Eschilo lo dice da sempre. Negli ultimi 2500 anni di città ne sono crollate tantissime. È proprio la straordinarietà dell'essere classico e dell'essere archetipico. Eschilo è un maestro delle umane fragilità. Noi ci rispettiamo e ogni contemporaneità si può rispecchiare in Eschilo e troverà sempre da imparare e troverà sempre una via retta dentro cui capire come poter muovere il presente».
Alla fine dello spettacolo dello scorso anno scorrevano immagini di tragedie moderne senza giustizia, malgrado quello appena compiuto fosse l'atto di nascita del tribunale giudicante, la svolta "giusta". Cosa aggiunge ora Agamennone a quella riflessione spietata?
«Ci fa capire che la giustizia è una sfera luminosa sopra la nostra testa. E l'atto di tendere verso un atto di giustizia, verso una giustizia più alta di quella che viviamo: è quella che è stata creata da noi uomini, che viene creata e mantenuta da noi uomini. Tendere verso quell'ideale di giustizia è il lavoro che devono fare gli uomini, sapendo bene che non ci arriveremo mai. Ma in questo noi compiamo il nostro dovere di uomini».
Lei ha detto: “Ognuno di noi si porta sofferenze che arrivano da lontano. La nostra responsabilità è risolvere le sofferenze che ci sono state date».
«Le storie familiari sicuramente non sono come quella della casa degli Atridi. Ci si augura. Ma anche in quelle che possono sembrare sofferenze infinitamente inferiori alla catena di omicidi terribili che noi raccontiamo, le nostre storie hanno comunque delle sofferenze che vanno rispettate e risolte. Ognuno di noi probabilmente ha il compito di risolvere le sofferenze che hanno attraversato la vita dei loro antenati. Perché dice qualcuno che questo è il senso dello stare al mondo. Un po’ come dare luce alle zone d'ombra. Spezzare le catene di sofferenza è il lavoro che dobbiamo fare in terra. Quello lo credo fortemente».
Ci ha abituato a scenografie suggestive. Anche quest'anno un esperimento con gli specchi...
«È la prima volta che uso questa tecnologia di un ledwall calpestabile. Lo specchio è una superficie straordinaria che ci serve per due ragioni. Vorrei restituire potentemente l'idea che andare a teatro possa dare una coscienza al pubblico di essere un agente dell'atto teatrale. Quando si parla delle genti di Argo, di fatto sta parlando a noi Clitennestra, e noi questo lo potremo vedere. Saremo inclusi perché illuminati in un certo modo, in certi momenti dello spettacolo. Lo specchio è qualcosa che continua a riportare un'immagine e quel riportarci un'immagine che ci include vuol dire che siamo anche noi costretti a prendere posizione, prendere posto in questa vicenda. E in questo non posso che essere profondamente emozionato. Perché anche dopo quello che abbiamo vissuto con il Covid, in cui a un certo punto si è teorizzata la fine del teatro a vantaggio di spettacoli in streaming. “Hic et nunc” è qualcosa che ci rende umani, che ci rende comunità. L'essere qui e ora insieme. E questa è una mia responsabilità: fare delle cose che tocchino profondamente l'animo delle persone, siano capaci di servire i testi e questo lo si può fare quando si è lì. In questo tempo in cui ci siamo un po’ disabituati a stare insieme, uno specchio che ci abbracciasse era qualcosa che mi emozionava particolarmente. E poi soprattutto ci racconta l’antefatto: lo specchio è uno dei tanti varchi che possiamo avere o che immaginiamo di poter avere per le altre dimensioni».
Solo un'ultima cosa. Serata unica con la trilogia. Anche questo è un esperimento. Forse è la prima volta che si fa una maratona di teatro così.
«Che bello. Sono veramente molto contento che anche il sovrintendente, il consiglio di amministrazione, tutti abbiano abbiano sostenuto questa idea. È una prova, ma sostiene ancora di più il senso della comunità. Si va ancora di più verso un senso militante del fatto di stare insieme, di contagiarci con la bellezza, di stare insieme. Ma questo credo che sia la grande funzione del teatro. A me fa sempre molto ridere quando si parla di attualizzare. Non so che cosa voglia dire: il teatro è attualizzato sempre. E poi il teatro è questa materia viva che ha necessità in maniera profonda di essere fatta da vivi per i vivi».
L'anno prossimo ci ritroveremo in scena?
«No. Però vivrei a Siracusa. Per la qualità delle persone, per la qualità della vita che ho trovato, tanto dal punto di vista personale quanto professionale. Io ho ricevuto tantissimo da Siracusa».
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