«Se mi guardo indietro, non ho pentimenti. Dovessi ricominciare, farei esattamente tutto quello che ho fatto. Tutto. Mi risposerei anche. Con un’altra, naturalmente». Questa nota frase di Raimondo Vianello, di cui oggi ricorre il centenario dalla nascita, ne celebra il gusto per la battuta, che gli sgorgava spontanea e inarrestabile, qualcosa che gli apparteneva così tanto da non potersi trattenere. Si faceva schermo della sua innata eleganza (non per niente, nato a Roma, era figlio di un ammiraglio e di una nobildonna marchigiana) per poi dire qualsiasi cosa, anche la più corrosiva e non solo nei confronti della moglie Sandra Mondaini, cui era legato prima da anni di riviste teatrali e poi da decenni di varietà televisivo e dalla ventennale sit-com “Casa Vianello”.
Con una caratteristica che oggi sembra perduta tra i comici: mai una volgarità, mai una parolaccia. E probabilmente anche il padre, per quanto fosse un militare che sognava la carriera diplomatica per il figlio, non era da meno.
Come racconta Vianello (nel libro “Un, due, tre”, firmato da lui e Ugo Tognazzi e curato da Roberto Buffagni, oggi quasi introvabile), quando fu istigato da un produttore che conosceva la madre a guadagnare qualche soldo partecipando a una rivista, fu necessario chiedere il permesso all’ammiraglio, che se ne uscì così: «Come no, fai pure, basta che cambi nome». Così, dopo aver rifiutato l’offerta del Palermo, che gli offriva un buon ingaggio per giocare a calcio in Serie B, nel 1945 si trovò quasi per caso sul palcoscenico, nella rivista “Cantachiaro 2”. E con che gente! Gli autori erano Garinei e Giovannini, in scena c’erano Anna Magnani, Gino Cervi, Marisa Merlini ed Enrico Viarisio (che Vianello ha sempre considerato il suo maestro).
Doveva fare un ufficiale americano, che non diceva battute. Invece si scoprì che il pubblico rideva solo a vederlo e, quando fu deciso di farlo anche parlare, fu chiaro che la sua vocetta stridula, tutta di testa, otteneva effetti comici. Insomma, doveva fare una scena e alla fine si ritrovò a farne venti e con un mestiere in mano: attore comico. Attraversato però da un dubbio, confessato al regista Sandro Bolchi nel 1948, che gli è rimasto per tutta la carriera: «Sono pigro, mi piace stare in casa con la radio accesa. Gli applausi fanno troppo rumore. Non ho ancora capito se mi piacciono o mi disturbano».
Forse anche per questo è stato sempre un lavoratore in coppia e il suo primo partner – in teatro e poi in tv e cinema – fu il coetaneo Ugo Tognazzi. Furono loro a inventare il varietà televisivo, insieme con gli autori Scarnicci e Tarabusi. “Un, due, tre” andò in onda dal 1954 al 1959 e all’inizio si rifaceva alle esperienze del teatro di rivista. Presto furono portate innovazioni, soprattutto la parodia della stessa tv, con Vianello che imitava il regista Mario Soldati come conduttore del programma “Alla ricerca del cibo genuino”, e i due attori – ambedue protagonisti e non spalla, anche questa una novità – che si alternavano nei panni delle “donne che lavorano”.
Se trovate su RaiPlay Vianello che fa la mondina, guardatelo: è un pezzo di storia della tv. Nello stesso periodo fecero anche “Giro a segno”, al seguito del Giro d’Italia, un programma satirico antesignano del “Processo alla tappa”, in cui Tognazzi faceva Bartali e Vianello il giornalista De Martino (un entusiasta alla maniera di Vincenzo Mollica) e si inventarono il tormentone «gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare», poi riversato in “Un, due, tre” e rimasto il marchio di fabbrica del ciclista toscano.
Il successo di quel varietà sembrava infinito, invece accadde l’imprevisto.
A quel tempo fare satira politica era impensabile, ma, era il 1959, il presidente della Repubblica, Gronchi, finì a terra accanto al presidente francese De Gaulle, durante una cerimonia pubblica, perché un valletto per errore gli aveva tolto la sedia. Si vide in diretta tv, ma nessun giornale ne scrisse. La Mondaini era davanti al televisore e raccontò tutto al fidanzato Raimondo. Con Tognazzi e gli autori la decisione fu immediata: i due in diretta erano davanti a un tavolo e quando Ugo provò a sedersi, Raimondo gli tolse alla sedia. E Vianello disse all’altro: «Chi ti credi di essere?». Bastò questo per decretare la fine del programma (Gronchi era notoriamente permaloso). Alla fine della puntata i due attori trovarono in camerino una raccomandata a mano in cui veniva dato loro il benservito.
Passarono due anni e, in vista dell’inizio delle trasmissioni del nuovo secondo canale Rai, i dirigenti pensarono al gran ritorno di Tognazzi e Vianello, una specie di riabilitazione. Li convocarono e chiesero se avevano qualcosa di pronto. Ancora una volta Vianello non rinunciò alla battuta e s’inventò al volo: «Sì, avremmo una scenetta sul papa». Tognazzi, che non sapeva nulla ma non era da meno, cominciò a biascicare parole in dialetto bergamasco (il Papa era Giovanni XXIII). «Così – raccontò Vianello – per amore di una battuta, perdemmo la scrittura».
Del resto, per l’attore romano sono stati sempre più difficili i momenti seri della vita, compresa l’adesione alla Repubblica Sociale (con lui, tra gli altri, Dario Fo, Walter Chiari ed Enrico Maria Salerno), finita in un campo di prigionia (poi nel 1996 è stato insignito dell’onorificenza di Grand’Ufficiale della Repubblica italiana, con buona pace di Gronchi).
La conoscenza con Sandra Mondaini cominciò con una lite in palcoscenico, ma culminò in una cena al ristorante (con vari avventori) con la frase: «Sai che mi sono innamorato di te?», pronunciata guardando con intensità una cotoletta. Ambedue erano sentimentalmente legati ad altri, ma quando si rividero dopo qualche mese si ripresentarono liberi e pronti a cominciare una lunga vita matrimoniale. Si sposarono nel 1962. Testimone fu Tognazzi che ormai si era dedicato soprattutto al cinema (Vianello lo riteneva troppo faticoso, tanto che rinunciò a entrare nel cast di “Amici miei”), ideale passaggio anche da un partner di spettacolo all’altra. Da “Studio Uno” e “Tante scuse” in Rai, Sandra e Raimondo si trasferirono in Fininvest, con il nuovo tormentone «Che barba che noia, che noia che barba».
Leggenda molto vicina alla verità racconta che anche nella prima notte di nozze Vianello abbia letto la “Gazzetta dello Sport”. Lui amava tantissimo il calcio (condusse anche “Pressing”) e ogni settimana, pur ultraottantenne, giocava nel campo vicino a casa, ora intitolato al suo nome. Portava sempre le magliette pulite e, alla fine di ogni partita, le ritirava sporche: insomma, giocatore e magazziniere. A parte il calcio e Sandra, tutto il resto era da prendere con serietà relativa: anche il Festival di Sanremo, di cui fu anomalo conduttore nel 1998, quando aveva 75 anni. Gli fu perdonato anche l’aver liquidato l’ospite Madonna con un «Mi scusi, ma dobbiamo andare avanti», senza aver mostrato mai segni di pentimento. Tutto gli scivolava addosso, probabilmente avrà accolto con una battuta anche la morte, quando l’ha incontrata il 15 aprile 2010.
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