Diversi i protagonisti, ma uguale la scia di prevaricazione e violenza che ogni guerra lascia al suo passaggio, annullando qualsiasi differenza tra generi ed età, e rendendo la colpa un sentimento impalpabile, perché l’obiettivo è colpire, distruggere, luoghi e vite. Tanti gli scenari di orrore che la guerra in Ucraina ci consegna giorno dopo giorno; immagini simili purtroppo a tante altre che i media propongono in documentari storici o film commemorativi: pezzi di storia riconoscibili da particolari fotogrammi divenuti manifesti, emblemi identificativi di uomini e storie. Immagini sempre crude e troppo reali, capaci tuttavia di portare il pensiero su ciò che è stato e non dovrebbe più esistere in un mondo giusto, più umano e civile. Ma il gusto della barbarie sembra connaturato all’umana condizione, allo stesso modo dell’amore, dell’empatia e del rispetto; e nel momento in cui vien fuori distrugge tutto, anche il più elementare sentimento di pietà. Torna così la storia di massacri e profanazioni, ma tornano anche eroi ed eroine che in mezzo alla distruzione e all’orrore lavorano alla ricostruzione di vite e legami. Con pochi effetti personali nei loro zaini preparati in fretta, sotto il terrore dei bombardamenti russi e il fantasma della morte dentro, le mamme ucraine, vere eroine in un conflitto insensato e folle, cercano di mettere in salvo ciò che hanno di più caro: i loro bambini. Decise e forti nel necessario distacco dal loro uomo e dai figli maschi adulti, affrontano a viso aperto il fantasma terrificante di vedere barbaramente colpiti i piccoli; ignare creature che col giocattolo preferito tra le braccia abbandonano la loro infanzia e lasciano luoghi e persone del microcosmo sociale: compagni di scuola, amici, portando nel cuore e negli occhi le mura della loro stanza di giochi assieme alle macerie di un paese ferito, di case distrutte da bombardamenti e incendi. Ma ciò che le mamme ucraine, esemplari di tutte le mamme di ieri o di oggi, hanno dimostrato di tenere sopra ogni cosa è il destino dei figli minori nel caso loro stesse venissero colpite a morte. Così la guerra ci consegna altre immagini che stringono il cuore, da tempo virali sui social, ma ancor più virali nella nostra anima. Aleksandra Makoviyè stata la prima mamma ad imprimere sulla schiena nuda del proprio bambino, ancora in età di pannolino, nome e cognome del piccolo, con i recapiti telefonici di chi si sarebbe dovuto occupare di lui nel caso fosse stata uccisa. Dopo di lei, tante altre mamme hanno affidato alla schiena nuda dei figli la loro identità, nel tentativo disperato di salvarli dallo spaesamento della solitudine totale; ma ancor più dalla privazione di un maternage ancora più necessario in mezzo alla precarietà assoluta della guerra. Nel loro gesto un mandato di affidamento, ma anche una rudimentale progettazione del futuro dei loro bimbi indifesi. Un attestato di “riconoscimento” a pelle, quello delle mamme, che apre tuttavia le porte ad un possibile domani, e che trova, nell’indicazione dei futuri responsabili della “cura”, la concreta attuazione di un maternage che non ha limiti o confini, perché va al di là di ogni egoistico possesso delle stesse creature cui si è data la vita. Un maternage forte e disperato, che non si ferma davanti a niente; perché su quelle cifre impresse a nudo e dentro gli zaini forniti di meno dell’essenziale, c’è tutto l’amore e il sacrificio di cui qualsiasi madre è capace. Ma c’è anche la famiglia, quel nucleo unito da legami d’amore che il nemico non riesce a recidere, e che le mamme si fanno carico di portare in salvo, anche camminando per giorni e giorni al freddo e con i piedi nel fango, per raggiungere Paesi confinanti o lontani cui chiedere asilo. Oggi, Festa della mamma, non possiamo fare a meno di ricordare tutto ciò, riflettendo sulla nostra condizione di spettatori di un conflitto lontano, ma non troppo. Noi privilegiati che possiamo rientrare a casa dopo una giornata di lavoro e trovare il nostro mondo, gli oggetti che ci rappresentano, soprattutto gli affetti, senza la paura che tutto possa finire da un momento all’altro. Una famiglia che si divide è un legame che si spezza, di cui le donne, come sempre, in mezzo a conflitti e drammi, riescono a tenere i fili, per riannodarli ancora più forti dopo l’emergenza. Le mamme ucraine, protettrici e custodi degli affetti, diventano così simbolicamente messaggere di pace, per la loro capacità di guardare oltre al conflitto e buttare il cuore oltre l’ostacolo, animate dalla speranza che tutto si possa ricomporre. Soprattutto – come abbiamo potuto osservare attraverso i media – non privando i figli di abbraccio e di un sorriso anche durante le notti più buie.